Il blocco moderato vicino al presidente Rouhani si è aggiudicato la maggioranza anche nel ballottaggio dello scorso 29 aprile. Ma si tratta davvero di “riformisti”?
di Giorgia Grifoni
Roma, 7 maggio 2016, Nena News – Cosa c’è di nuovo nel decimo Parlamento della Repubblica Islamica? Molto. Ci sono più donne -17 – e meno clerici – 16 – che in tutte le legislature dal 1979 a oggi. C’è una base abbastanza solida per intraprendere le famose riforme economiche che il presidente Hassan Rouhani ha promesso a inizio mandato. E’ c’è anche la speranza che venga rieletto il prossimo anno, vista la fiducia accordata al suo campo da parte degli elettori. Ma forse, nonostante i numeri sbandierati dalla stampa mondiale, non ci sono più riformisti che conservatori, come invece risulterebbe dalle urne.
I risultati del ballottaggio di venerdì scorso hanno riconfermato, se non la vittoria schiacciante del fronte riformista-moderato, sicuramente la sconfitta dei conservatori: su 68 posti in palio, 38 sarebbero andati ai moderati, 18 ai “principalisti” e 12 agli indipendenti. Il blocco riformista, stando all’Associated Press, si aggiudica così ben 143 seggi, seguito dagli 86 del blocco rivale e infine dai 61 degli indipendenti. Quasi metà dell’assemblea, quindi, sarebbe “dalla parte” di Rouhani, il che, secondo gli analisti, permetterebbe al presidente di implementare delle riforme di stampo liberista in economia, riforme che avrebbero lo scopo primario di far risollevare il paese dal disastro provocato da anni di chiusura economica e di sanzioni occidentali.
Se per “riformisti” si intendono coloro che vorrebbero implementare queste riforme, allora è giusto dire che abbiano vinto; ma se per “riformisti” si intendono coloro che vogliono riformare il sistema a un livello più profondo, e portare avanti dei cambiamenti in materia istituzionale, pensare che questi siano la maggioranza nel nuovo Parlamento è una pia illusione.
Le logiche del posizionamento dei deputati all’interno del Majlis sono state ben illustrate in un’ analisi di Mahmood Delkhasteh, ricercatore e attivista politico iraniano, sul portale Open Democracy. Il sociologo si chiede innanzitutto cosa sia veramente il riformismo iraniano, scorporato dalla dicotomia di stampo occidentale di opposizione al conservatorismo: cioè l’azione o il processo di riforma di un’istituzione o di una pratica. Porta l’esempio della presidenza di Mohamed Khatami, considerato il primo capo di stato riformista della Repubblica islamica. Sebbene sotto Khatami si fossero discussi leggeri cambiamenti alla legge elettorale, che tendevano a definire meglio il potere presidenziale e di fatto limitavano l’azione su di esso di altri organi istituzionali, Delkhasteh riporta una sua dichiarazione rabbiosa in cui sostenne che cambiare la Costituzione “equivaleva a un tradimento”. In un’altra dichiarazione di quel periodo Khatami sostenne addirittura che i leader delle democrazie occidentali avessero più potere della Guida suprema dell’Iran.
Inoltre, Delkhasteh si chiede come mai nella famosa “lista della Speranza”, coalizione composta da “riformisti” e moderati in lizza per i seggi della capitale Teheran sia al Parlamento che all’Assemblea degli Esperti, ci siano state decine di nomi che hanno fatto tremare gli orfani e le vedove degli oppositori al regime. Come l’Ayatollah Omid Najaf Abadi, responsabile della condanna a morte di almeno sei tra attivisti e scrittori critici del sistema. O l’Ayatollah Reyshahri, il primo capo del Vavak (ministero dell’Intelligence iraniano), che ha firmato l’esecuzione di molti piloti delle forze aeree iraniane e funzionari come Seyed Mehdi Hashemi, che ha giocato un ruolo di primo piano nell’esposizione della relazione segreta tra il regime di Khomeini e l’amministrazione Reagan, conosciuto come l’Irangate. Altri giudici-boia presenti nella lista comprendono Mohseni Ejei, Ali Razini e Seyed Ebrahim Reisi, quest’ultimo famoso per aver accelerato l’esecuzione di oltre 5 mila prigionieri politici in soli tre giorni.
Chi segue le vicende elettorali iraniane, infatti, avrà accolto con stupore la quantità di di candidati “riformisti” ammessi dal Consiglio dei Guardiani – 200: un numero abbastanza “alto” se paragonato alle precedenti tornate elettorali. Come conferma Delkhasteh, infatti, il regime ha proibito ai principali leader riformisti di candidarsi con poche eccezioni e solo quelli più innocui sono riusciti a passare il filtro dei Guardiani. A fronte di un Parlamento sostanzialmente svuotato del suo potere, il Consiglio dei Guardiani si è però ben guardato dal permettere a troppi moderati di concorrere per un seggio nel prezioso Consiglio degli Esperti, preposto alla nomina della prossima Guida Suprema. Se Khamenei ha perso alcuni dei suoi uomini più fidati nella corsa e ha visto l’odiato Akbar Hashemi Rafsanjani conquistare una poltrona, non era certamente preoccupato dal risultato finale: come previsto, degli 88 seggi dell’Assemblea, il 90 percento è andato a candidati conservatori – principalisti o moderati – a lui vicini. Quanto agli indipendenti, se si va a fondo nelle loro biografie si scopre che molti provengono dal campo conservatore.
Certo è che, in un paese che non ha un sistema partitico vero e proprio, il posizionamento dei candidati in Parlamento sarà quantomeno confuso. Gli analisti confermano che gli schieramenti potrebbero cambiare a seconda dei temi in discussione, e che i deputati voteranno caso per caso senza porsi particolari problemi di affiliazione ideologica. Ad affossare ancora di più la precaria chimera riformista, poi, ci sta pensando l’accordo sul nucleare. Firmato nel luglio scorso, dopo oltre due anni di trattative, stenta ancora a essere implementato nella parte riguardante il sollevamento delle sanzioni, circa 55 miliardi di dollari che le limitazioni bancarie Usa stanno ritardando a rilasciare. E in Iran le voci di protesta contro l’atteggiamento statunitense del “prendere tutto e non dare niente” si fanno sempre più forti. A guidarle, ancora prima che venisse intavolato il negoziato, ci pensavano i principalisti: ora, dopo che l’Iran sta mantenendo tutti i suoi impegni atomici senza vedere in cambio neanche l’ombra del beneficio di una sanzione sollevata, i principalisti non sono più soli.
Non è solo per la lentezza e le minacce con le quali Washington si occupa di implementare la sua parte dell’accordo, ovvero liberare l’Iran dal peso delle sanzioni: ora c’è in ballo anche la causa per gli attentati del 1983 contro i marines americani a Beirut, attentato attribuito a Hezbollah per il quale la Corte Suprema Usa ha stabilito che sarà Teheran a pagare. Il risarcimento per le famiglie – 2,6 miliardi di dollari – verrà sottratto ai beni congelati della Banca Centrale iraniana dalle sanzioni, una mossa possibile grazie a una recente legge del Congresso scritta ad hoc per il caso. Parole dure contro gli Stati Uniti – accusati di deviare illegalmente i preziosi asset che secondo l’accordo dovrebbero essere restituiti a Teheran – sono state pronunciate persino dal mite Rohani. Inoltre, il portale al-monitor fa notare come recentemente Washington abbia portato leggere modifiche al Visa Waiver Program, che esclude i cittadini di Iran, Iraq, Sudan e Siria dall’esenzione del visto di ingresso per gli Stati Uniti. Misure che scoraggiano gli imprenditori iraniani e quelli stranieri che vogliono fare affari con l’Iran, dal momento che l’esenzione al visto è vietata anche a tutti quelli che si siano recati a Teheran negli ultimi 5 anni. Quanto basta, insomma, per far tornare buona parte dello spettro politico iraniano su posizioni conservatrici. Nena News