A 23 anni dal massacro di oltre 8mila musulmani bosniaci e la deportazione di 20mila donne e bambini, le narrazioni restano ancora legate a logiche nazionaliste, da parte serba, croata e bosniacca
di Marco Siragusa
Roma, 11 luglio 2018, Nena News – Sono passati ormai 23 anni dal terribile massacro di Srebrenica dove furono uccisi, in un’operazione di vera e propria pulizia etnica, oltre 8 mila musulmani bosniaci. Un’intera generazione è cresciuta nel ricordo e nelle ferite di quelle giornate, una generazione che non ha vissuto direttamente il conflitto armato e le sue atrocità ma che ha pagato le conseguenze di una guerra fratricidia a cui prova a porre rimedio. A distanza di 23 anni le narrazioni sul massacro restano ancora troppo spesso legate a logiche nazionaliste che tendono a sfumare le reali responsabilità dei soggetti coinvolti.
Erano già passati tre anni dallo scoppio della guerra quando l’11 luglio 1995 le truppe del generale serbo Ratko Mladić entrarono a Srebrenica, un piccolo paesino a pochi chilometri dal confine serbo-bosniaco. L’intera Bosnia era sconvolta da una guerra sanguinosa che contrapponeva popoli e etnie che fino al giorno primo convivevano pacificamente uno accanto all’altro. Il puzzle bosniaco, composto principalmente da serbi, croati e bosniacchi (i musulmani bosniaci), riproduceva in piccolo l’intera esperienza jugoslava. La sua capitale, Sarajevo, poteva essere considerata la città più multietnica d’Europa.
Srebrenica non faceva eccezione con una popolazione a maggioranza musulmana (43%) ma con un’importante presenza serba (34%) e croata (17%). L’avvio della guerra in seguito alla dichiarazione d’indipendenza di Slovenia e Croazia aveva sconvolto gli equilibri e la quotidianità di popolazioni vittime di giochi di potere tra i vari gruppi politici nazionali.
La Bosnia rappresentò il terreno di scontro privilegiato per le politiche nazionaliste (tanto serbe quanto croate e bosniacche) che miravano a una divisione del paese secondo una demarcazione etnico-nazionale. Era quindi necessario rendere omogenea la composizione delle zone occupate secondo il criterio della popolazione maggioritaria che riconosceva, alla nazionalità più numerosa, il diritto a mantenere il controllo su quel territorio. L’unico modo per ottenere questo risultato era l’eliminazione fisica di quelli che adesso venivano considerati nemici: una vera e propria pulizia etnica. Questa poteva avvenire attraverso la deportazione e la cacciata di intere popolazioni, come attuato dalle truppe croate nella Krajna nei confronti di 600 mila serbi, o il loro sterminio, come praticato dall’esercito serbo a Srebrenica.
La piccola cittadina bosniaca si trovava in una zona particolarmente calda del conflitto. Situata tra Belgrado, capitale di quello che rimaneva della Jugoslavia, e una Sarajevo vittima del più lungo assedio della storia moderna, Srebrenica rappresentava un’enclave musulmana in un territorio quasi completamente “serbizzato”. Questo non poteva essere accettato dalle milizie serbe che agivano con l’unico obiettivo di occupare più territori possibili per potersi successivamente sedere al tavolo delle trattative di pace da una posizione di forza e rendere impossibile il ritorno delle popolazioni cacciate.
Per evitare il protrarsi di episodi di pulizia etnica il 16 aprile 1993 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite emanò la Risoluzione 819 che dichiarava Srebrenica e dintorni “zone protette” chiedendo di escludere l’area da qualsiasi attacco armato o qualsiasi altro atto ostile e il ritiro immediato delle truppe serbo-bosniache. Purtroppo queste richieste rimasero inascoltate fino a quando, tra l’8 e il 10 luglio 1995, le truppe guidate da Mladić assediarono la piccola città presidiata da circa 600 caschi blu olandesi che avrebbero dovuto difenderla dagli attacchi serbi. L’11 luglio le milizie serbe entrarono in città e diedero avvio all’eccidio di 8.372 bosniacchi e alla deportazione di 20mila donne e bambini.
Riconoscere l’oggettiva responsabilità delle milizie serbe nel compimento di un gesto così disumano è sicuramente il primo passo per restituire dignità alle vittime. Ma al di là della condanna senza mezzi termini per i carnefici di Srebrenica è fondamentale riflettere sull’incapacità, se non vera e propria complicità, degli altri attori in gioco nell’evitare il massacro. La narrazione di questo episodio, così come in generale della guerra fratricida di quegli anni, è stata spesso strumentalizzata dalle parti in causa.
Da parte serba viene criticata l’eccessiva criminalizzazione messa in campo dall’opinione pubblica internazionale che considera i serbi come gli unici responsabili delle atrocità di quegli anni, secondo posizioni che vanno dal più becero negazionismo a una ricerca di una verità storica che riconosca che ponga sullo stesso piano le violenze perpetrare dalle milizie croate e bosniacche. Per i croati e i bosniacchi l’eccidio di Srebrenica, ancor più dell’assedio di Sarajevo, ha rappresentato l’occasione perfetta per presentarsi davanti alla comunità internazionale come le vittime di un’aggressione unilaterale della Serbia, ottenendo in questo modo il sostegno delle grandi potenze, delle organizzazioni militari come la Nato e una quasi totale indifferenza delle azioni, altrettanto violente, da loro commesse durante il conflitto.
Ci sono voluti anni di indagini e processi per riconoscere come le responsabilità dell’eccidio di Srebrenica ricadono non solo sui serbi ma anche sul mancato intervento dei caschi blu olandesi. Nel 2014 infatti la Corte dell’Aia ha stabilito che lo stato olandese è civilmente responsabile per l’uccisione di 300 musulmani bosniaci a causa della mancata opposizione alla deportazione di coloro che si erano rifugiati presso la loro base nonostante fossero coscienti del rischio di un genocidio.
Proprio sul termine genocidio si concentra uno scontro carico di un forte significato politico. Secondo il Tribunale Penale dell’Aja per la ex Jugoslavia e la Corte internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite la strage fu un genocidio ma ancora oggi il governo serbo, pur mostrando concreti passi in avanti nel riconoscimento dei crimini commessi, non accetta questa definizione.
Nel 2015 la Russia, storica alleata di Belgrado, ha addirittura posto il veto sulla bozza di risoluzione presentata al Consiglio di sicurezza Onu e destinata a condannare come genocidio i fatti di Srebrenica in quanto troppo aggressiva e politicamente strumentale contro i serbi.
Per i fatti di quel luglio 1995 una sentenza della Corte internazionale di giustizia dell’Aja del 2007 ha definitivamente assolto la Serbia nel processo per la responsabilità diretta nell’eccidio. Negli anni successivi sono stati invece condannati sia il generale Ratko Mladić, allora alla guida delle operazioni di pulizia etnica, che Radovan Karadzić, leader dei serbi-bosniaci. Il primo è stato condannato, nel novembre dello scorso anno, all’ergastolo per genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra, mentre Karadzić è stato condannato a 40 anni di reclusione.
Ancora oggi in Serbia in tanti, compreso l’ex premier e attuale presidente della Repubblica Alexsander Vučić, considerano Mladić un eroe nazionale difensore dei serbi la cui condanna è una condanna verso tutto il popolo serbo.
Purtroppo nonostante gli evidenti passi in avanti nel processo di riconciliazione degli ultimi anni, sembra ancora lontano il raggiungimento di una comune lettura storica degli eventi che favorirebbe la stabilità e la pace nella regione. Le spinte nazionaliste, tutt’altro che sopite e superate, da una parte e dall’altra rischiano di evocare ricordi pericolosi con cui forse non si è mai voluto veramente fare i conti, preferendo rinchiudersi in autorappresentazioni poco aderenti alla realtà. L’eccidio di Srebrenica ha rappresentato senza dubbio una delle pagine più buie della storia recente dei Balcani e dell’intera Europa. Ricercare una verità condivisa su quei crimini, i loro responsabili materiali e politici è l’unica strada per affrontare il passato e ricostruire relazioni stabili e pacifiche tra popoli che hanno già dimostrato di saper convivere pacificamente. Nena News
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