Quasi trent’anni dopo una delle pagine più buie della storia europea, la Bébert Edizioni, ha tradotto “Sopravvivere a Sarajevo. Condizioni urbane estreme e resilienza: testimonianze di cittadini nella Sarajevo assediata (1992-1995)”.
di Marco Siragusa
Il 5 aprile 1992 iniziava l’assedio di Sarajevo, il più lungo della storia contemporanea. Quattro anni, 1.395 giorni, in cui la città rimase completamente isolata dal resto del mondo, senza acqua, riscaldamento, corrente elettrica. Durante quei giorni difficili, il FAMA Collection, la prima organizzazione di media indipendenti nata in quello che rimaneva della Jugoslavia, diede vita ad una guida alternativa della città. All’interno della Sarajevo Survival Guide non venivano riportati i locali più alla moda o i monumenti da visitare ma venivano pubblicate informazioni utili alla sopravvivenza e i racconti di una quotidianità assediata.
A distanza di quasi trent’anni da una delle pagine più buie della storia europea, Matteo Pioppi e Mariagrazia Salvador, editori della Bébert Edizioni, hanno deciso di tradurre, con l’aiuto di Osservatorio Balcani Caucaso, questo lavoro con il titolo “Sopravvivere a Sarajevo. Condizioni urbane estreme e resilienza: testimonianze di cittadini nella Sarajevo assediata (1992-1995)”.
Di seguito riportiamo una breve intervista che abbiamo avuto il piacere di fare agli editori durante la presentazione del libro presso la Libreria Tamu di Napoli.
“La risata è la ricetta per la nostra salute mentale. E creare è fonte di gioia”
Da dove nasce la necessità e l’idea di tradurre questo libro adesso, a distanza di quasi trent’anni da quegli eventi?
Ci sono due ragioni principali per cui abbiamo voluto fortemente tradurre questo libro. La prima è legata alla necessità di mantenere viva una memoria storica di un evento che ha riguardato l’Unione Europea e di cui, però, non si è fatta carico. Dal punto di vista storico, forse, solo adesso i tempi cominciano ad essere adeguati per avere una visione un po’ più lucida delle guerre nei Balcani. Tutti e due abbiamo sempre riflettuto sul fatto che la narrazione sui Balcani è una narrazione difficile da ascoltare, da capire e riprodurre. Questo libro parla delle persone, non cita nessun nome, nessuna nazionalità, nessun gruppo etnico ma racconta il vissuto umano. Come detto dal collettivo FAMA, che ha curato la prima edizione di questa guida per la sopravvivenza, “vogliamo rompere con la memoria della guerra strumentale alle divisioni del paese, trasferendo alle giovani generazioni di tutta la regione dei Balcani e del mondo una memoria collettiva che abbia come base il processo di riconciliazione”. Secondo noi la memoria storica su quanto accaduto è ancora tutta da fare, perché c’è un problema evidente nella memoria dell’Unione Europea quasi come se quegli eventi fossero un incubo in un cassetto che si vuole tener chiuso e di cui non si vuole parlare. Bisogna invece prendersi la responsabilità di quello che è successo, elaborare quel periodo storico nei suoi aspetti peggiori, smetterla di aver paura nell’ammettere che tutti quanti abbiamo assistito alle guerre jugoslave definendole “guerre tribali”, portate avanti da “genti tribali che si massacrano tra loro”. Noi abbiamo messo una distanza tra noi “europei”, “civilizzati”, e questi fatti che hanno riguardato “tribù balcanizzate” che si sono sbranate tra loro come esseri “inferiori e non civili”.
Questo non è un libro storico o un lavoro giornalistico, è il tentativo di andare dentro le piccole cose, dentro la quotidianità di una città sotto assedio. Da qui la seconda ragione: si tratta di un libro che non è solo memoria storica ma è uno strumento che ti insegna la sopravvivenza e l’importanza della cultura nella sopravvivenza in tutte le situazioni di aggressione all’umanità. Questo è un passepartout per parlare di come la cultura dia la possibilità di resistere come persona, di essere resiliente e non dimenticarti di essere umano.
Dal punto di vista prettamente militare, l’assedio era praticamente inutile dato che la città sarebbe potuta essere conquistata in pochi giorni. L’obiettivo reale degli assedianti era però quello di distruggere l’identità di una città multietnica, multiculturale, simbolo della Jugoslavia titina. Non a caso i primi edifici ad essere distrutti furono la Vijecnica, la biblioteca nazionale, e il Centro di Cultura Orientale. L’altro obiettivo evidente era quello di annullare la quotidianità, la normalità, come dimostrato anche dai due bombardamenti al mercato Markale che provocarono centinaia di morti. In che modo questi due aspetti vengono ripresi ed evidenziati in questo libro?
Come detto, questo è un libro di testimonianze anonime, senza nessun nome e cognome. In Jugoslavia il tuo nome identificava immediatamente l’appartenenza etnica o religiosa. In questo lavoro c’è stata la volontà di non rappresentare questo aspetto perché avrebbe creato problemi. Non si voleva creare una distanza, una spaccatura tra etnie, tra buoni e cattivi, vittime e carnefici. Questo libro non si fa carico di rappresentare i valori multiculturali ma fa emerge qualcosa di più immediato e cioè i rapporti informali, quelli di vicinato, il modo in cui i rapporti umani siano serviti a sopravvivere sia da un punto di vista culturale che materiale. Dai racconti presenti nel libro emerge in maniera chiara una società che non aveva problemi a parlare, a comunicare. Istintivamente si evince come la creazione di una società come quella socialista jugoslava, fondata su rapporti di vicinato, di fratellanza tra i popoli come sostenuto dalla propaganda titina, abbia fatto si che ci fosse una solidarietà diffusa anche in un momento tragico come quello dell’assedio e della guerra civile.
Riguardo la volontà di distruzione, questa non è presente perché è un libro che parla della vita e non della morte, della sofferenza o che accusa qualcuno. Certo, è vero che c’è stata la volontà di annientare l’identità multiculturale della Bosnia. Proprio la Bosnia era stata il fulcro della resistenza titina durante la seconda guerra mondiale, un luogo fondante per l’immaginario collettivo jugoslavo. Distruggere la Bosnia significava distruggere questa idea e questo immaginario.
Il collettivo FAMA ha voluto fare questo libro per sottolineare anche questo aspetto: la cultura è stata la chiave di volta per questa popolazione che era fortemente legata all’idea di comunità che insegnava a continuare a fare seminari, cinema, lezioni universitarie, concerti che hanno contribuito a mantenere viva la città per quattro anni.
Sarajevo era una città moderna, la più alternativa di tutta la Jugoslavia, luogo di espressione di movimenti e riviste controculturali punk, new wave, una città molto fertile. Questo libro non parla della cultura in senso alto, accademico, ma di una cultura che è entrata nella vita delle persone e che ha fatto si che avessero un’arma in più per difendersi dalla disumanizzazione. La cosa bella di questo libro è che sottolinea come la cultura serva a ricordare alle persone che se non fai rete, se non crei comunità, sprofondi.
Sarajevo è una città che ha un rapporto particolare con la morte. Basta fare un giro per le strade per rendersi conto della quantità di lapidi, cimiteri e targhe che ricordano quella pagina buia della sua storia. Negli ultimi anni la città sta vivendo un’importante crescita dei flussi turistici, con oltre 500 mila presenze solo nel 2018. C’è il rischio, secondo voi, che la memoria diventi oggetto commerciale da mostrare nelle bancarelle e nei souvenir invece che strumento di consapevolezza?
Questo rischio c’è sempre, ma a Sarajevo c’è una visione della morte culturalmente diversa dalla nostra. C’è una capacità di raccontare i fatti più brutali con un’ironia dissacrante che porta le persone a non esser viste solo come vittime. Quello che noi vediamo in maniera macabra e negativa per loro fa parte della vita. Per la nostra cultura cattolica la morte è codificata in un certo modo, lì l’iconografia della morte, l’immaginario, non è solo luttuoso o vittimistico ma ha un suo lato vitale. Per noi è una cosa difficile da capire ma potrebbe essere uno strumento in grado di mitigare questo rischio di cui parli.
Inoltre bisogna sempre capire come viene commercializzata la memoria e da parte di chi. In Bosnia il problema è che ci sono tre partiti nazionalisti (il serbo SNSD, il bosniaco SDA e il croato HDZ) e tre diversi modi di divulgare la memoria storica di quegli eventi. Nei libri scolastici se sei bosgnacco ti viene presentata una determinata lettura storica, se sei della Republika Srpska ne hai un’altra, se sei erzegovese ne hai un’altra ancora. Questo è il problema più grande, l’assenza di una memoria condivisa e collettiva.
Qual è, secondo voi, l’eredità più importante di questo assedio? Cosa ha lasciato a distanza di trent’anni quell’evento così brutale e disumano?
Quando parli con loro, con quelli che hanno vissuto quella tragica esperienza, ti accorgi che l’eredità più grande è il senso di sconfitta perché di base ha vinto chi ha imposto Dayton e che ha ingabbiato questo paese. Se decidi di creare a tavolino uno Stato in una base militare americana crei per forza di cose dei partiti nazionalisti volti a difendere gli interessi della propria parte. Il lascito più importante è sicuramente una grande sconfitta ma non solo. Il grande insegnamento che dobbiamo trarre da questa storia e che si tenta di far emergere in questo libro è che solo costruendo relazioni umane con gli altri puoi sopravvivere ad un assedio di quattro anni. In un periodo storico molto brutto come quello che stiamo attraversando noi adesso, ritornare ad avere fiducia nell’altro, ridare importanza ai rapporti umani al di là delle appartenenze religiose o nazionali può creare una sorta di resilienza e resistenza ad una violenza esterna molto forte. È questa la doppia anima dell’eredità dell’assedio. Questo è dimostrato da quanto avvenuto durante quei quattro anni. Per esempio, il sindaco convocò gli artisti per creare qualcosa nella città assediata che desse l’idea di essere vivi ma non era un sindaco che pensava a rivalutare o gentrificare alcune zone, era un sindaco socialista che incarnava un’identità e una volontà molto forte nel resistere nonostante tutte le difficoltà del caso.
L’esercizio della creatività è importante quanto il cibo, le medicine e l’acqua. Il nostro paese vive una devalorizzazione totale della cultura e dell’idea di comunità, non viene data più nessuna importanza politica, economica, sociale alla cultura. Questo libro fa capire a quelle persone che non credono all’enorme valore della cultura che se non sai relazionarti con gli altri la tua vita non ha senso. Senza relazioni culturali non siamo niente. Noi impariamo dagli altri, senza gli altri non siamo nulla, moriamo.
“Se qualcuno aveva paura, diceva che aveva paura. Se qualcuno amava qualcuno, glielo diceva. subito, lo dichiarava apertamente. Se volevamo aiutarci a vicenda, lo facevamo”
Sono stato a fine luglio nella ex Jugoslavia partendo da Kotor e Dubrovnik e proseguendo per Mostar, Sarajevo e Belgrado. Sarajevo è la città che mi ha colpito maggiormente. Ho letto l’articolo di Marco Siragusa che mi ha fatto interessare al libro “Sopravvivere a Sarajevo”. Vorrei sapere come fare per averlo. Il concetto della sopravvivenza a Sarajevo si vive in ogni parte. L’ho sentito profondamente durante la visita al tunnel, l’ho percepito ancora nelle iniziative culturali in corso durante la mia visita tra cui una conferenza europea sulla pace tra i popoli. Ho fatto domande. Una su tutte, relativa all’eventuale intenzione di ricostruire l’intero tunnel sotto la pista dell’aeroporto, cui mi è stato risposto: “Qui la gente vuole cancellare i ricordi. La memoria apre ferite mai guarite. Non c’è una famiglia che non abbia avuto almeno una vittima nella guerra degli anni ’90. Capisce?” Gibi Puggioni