Le autorità non prendono misure adeguate all’emergenza, preferendo gestire il coronavirus come una questione di “ordine pubblico”: nessun tampone né informazioni ma persone chiuse in luoghi affollati
di Marco Siragusa
Roma, 6 aprile 2020, Nena News – Uno dei tanti luoghi comuni creati dal coronavirus descrive questo virus come “democratico”, che colpirebbe “tutti allo stesso modo”. Basterebbe considerare le diverse condizioni di vita tra cittadini ricchi e cittadini poveri per comprendere come questo sia, per l’appunto, un luogo comune privo di fondamento.
Se poi volessimo volgere lo sguardo agli ultimi della società, i migranti, ci renderemmo conto come anche in un momento di emergenza generalizzata alcune vite valgono meno di altre. Per comprendere quanto questo virus, e soprattutto la gestione dell’emergenza da esso creata, sia ben poco democratico si potrebbe guardare appena fuori i confini europei, in Bosnia-Erzegovina.
Giovedì 2 aprile il ministro della Sanità del Cantone di Una-Sana, al confine con la Croazia, Nermina Cemalovic ha confermato che 715 migranti sono in quarantena preventiva in aree di isolamento all’interno dei campi. Di questi, circa 200 erano appena ritornati dalla Slovenia dove erano stati bloccati e respinti dalla polizia di frontiera. Al momento si tratta solo di “sospetti contagiati” che presentano alcuni sintomi del Covid-19. Nei centri di accoglienza temporanea la lotta al virus viene infatti portata avanti in maniera piuttosto blanda.
Basti pensare che ancora oggi nessun tampone è stato fatto in questi centri e che le misure di prevenzione si limitano alla distribuzione di disinfettanti e alla chiusura delle cucine.
In questi anni, dall’apertura nel 2014 della cosiddetta “rotta balcanica”, la Bosnia è diventata l’anticamera dell’Europa attraversata da migliaia di migranti, 30mila solo nel 2019 secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim). L’Oim stima che in tutto il paese siano presenti tra i 7mila e gli 8mila migranti irregolari, di cui più di 2.500 esclusi dal sistema di accoglienza ufficiale e a cui sono impediti gli spostamenti interni compreso il semplice andar a fare la spesa in un supermercato.
Nel cantone di Una-Sana, a pochi chilometri dal confine che divide la Croazia e la Bosnia-Erzegovina sono ben cinque i centri d’accoglienza gestiti dall’Oim. La zona è ormai tristemente nota per il gran numero di migranti che vivono lì in condizioni disumane e per le violenze perpetrate dalla polizia croata nel tentativo di respingere dall’Europa coloro che provano a superare quel confine.
Passato l’inverno, l’arrivo del coronavirus ha reso la loro condizione ancor più precaria. In Bosnia le autorità hanno dichiarato lo stato di emergenza già lo scorso 17 marzo e al 3 aprile sono state registrate 552 persone contagiate e 17 decedute. I migranti, anche in questo caso, sono quelli più esposti al rischio contagio.
Sia per le loro condizioni di vita, ammassati in campi più o meno formali con servizi scadenti e dove non può fisicamente esser rispettato il distanziamento sociale richiesto a tutti i cittadini, sia per la scarsa informazione che hanno del virus, delle misure di prevenzione da adottare e delle limitazioni imposte dalle autorità.
Già il 26 febbraio il portavoce della polizia cantonale di Una-Sana, Ale Siljdedic, dichiarava al canale N1 che “ciò che più preoccupa è il coronavirus. Se si diffonde nei campi che abbiamo qui, non so come potremmo affrontarlo”. Eppure a distanza di più di un mese le autorità continuano a non prendere misure adeguate all’emergenza, preferendo gestire anche il coronavirus come una questione di “ordine pubblico” chiudendo i migranti in luoghi non adatti ad ospitare migliaia di persone e di garantirne la sicurezza dal punto di vista sanitario.
La situazione dei campi di accoglienza ai tempi del coronavirus sembra l’ennesima bomba a orologeria pronta ad esplodere con conseguenze che rischiano di essere catastrofiche.