La giornata è stata segnata subito dalla morte in ospedale di Thaer Raba’a, uno dei tanti feriti gravi del primo venerdì della Marcia del Ritorno. Migliaia di persone sono affluite nei cinque accampamenti eretti nei giorni scorsi. I più giovani hanno cominciato ad accatastare in vari punti centinaia di vecchi pneumatici, i kawshù. Qualcuno indossava delle maschere antigas artigianali ricavate da bottiglie e altri oggetti di plastica. Maryam Abu Daqqa, una studentessa di 20 anni, ha spiegato a una televisione locale di essere andata all’accampamento «per onorare le persone uccise». Ha aggiunto di avere paura ma che sarebbe ugualmente avanzata verso le barriere di confine: «Siamo qui per dire all’occupazione che non siamo deboli». Quindi i manifestanti, i volti di alcuni di loro erano coperti di fuliggine, hanno dato fuoco ai pneumatici.
In pochi attimi si sono levate nuvole di fumo nero che spinte dal vento si sono dirette verso le postazioni israeliane. Dall’altra parte hanno cercato di usare i cannoni ad acqua per spegnere i kawshù in fiamme senza grande successo. Poi gruppetti di giovani hanno cominciato a correre verso la recinzione. La reazione dei soldati, nonostante il fumo denso, non si è fatta attendere ed è stata una replica del 30 marzo. In particolare a Khuzaa, un villaggio a Est di Khan Yunis, divenuto tristemente noto durante l’offensiva israeliana “Margine Protettivo” del 2014 per l’elevato numero di vittime civili e per le distruzioni di case ed edifici.
Il primo a cadere sotto il fuoco dei tiratori scelti è stato Ahmad Nizar Muhareb, 29 anni. Poi sono stati uccisi Sidqi Abu Outewi, un 45enne, Mohammed Saleh, 33 anni, Ibrahim Al-Ourr, 22 anni e altri quattro di cui ieri sera non era stata ancora accertata l’identità. È stato uno stillicidio di vite umane, in buona parte giovani. E la striscia di sangue potrebbe allungarsi perché alcuni dei feriti (oltre mille) sono in condizioni gravi. Gli spari non hanno risparmiato sei giornalisti, colpiti secondo i media locali, nonostante fossero chiaramente identificabili come operatori dell’informazione. A Khuzaa poco dopo è andato in visita il capo di Hamas a Gaza, Yehiyeh Sinwar, che ha ricevuto l’accoglienza di un eroe. Circondato da centinaia di sostenitori che scandivano “Andremo a Gerusalemme”, Sinwar ha annunciato che il mondo presto si troverà di fronte a «una nostra grande mossa, con cui violeremo i confini e pregheremo nella moschea di Al-Aqsa», riferendosi al principale sito religioso islamico a Gerusalemme. Sinwar ha lanciato una sfida dai rischi incalcolabili, e non solo per per i palestinesi.
Se questo – oltrepassare le linee di demarcazione con Israele – sia davvero l’obiettivo di Hamas non è chiaro. Invece non ci sono dubbi sul fatto che la Marcia del Ritorno abbia messo nell’angolo il presidente dell’Anp Abu Mazen – piuttosto tiepido sino ad oggi nei confronti dell’iniziativa in corso a Gaza – e rafforzato gli islamisti. Abu Mazen ha dovuto frenare i suoi impulsi e rinunciare ad imporre nuove sanzioni contro Gaza, in risposta all’attentato al premier dell’Anp Hamdallah e al fallimento, almeno sino ad oggi, dell’accordo di riconciliazione con Hamas. E le sue mosse rimarranno congelate ancora a lungo, sino a quando andrà avanti – fino al 15 maggio dicono gli organizzatori – e con grande partecipazione popolare l’iniziativa per rompere il blocco israeliano della Striscia di Gaza.