Nonostante le promesse elettorali, il presidente statunitense Trump dovrebbe per ora procrastinare la decisione. Ma dalla Casa Bianca rassicurano: “Si farà, ma non sappiamo ancora quando”. Rapporto Onu denuncia le politiche d’occupazione israeliane
di Roberto Prinzi
Roma, 1 giugno 2017, Nena News – La conferma non c’è ancora, ma il presidente statunitense Donald Trump dovrebbe rinviare la decisione sul trasferimento da Tel Aviv a Gerusalemme dell’ambasciata Usa in Israele. A riferirlo ieri alla Reuters sono stati ufficiali americani e fonti diplomatiche. A differenza di quanto detto e ripetuto in campagna elettorale, Trump dovrebbe quindi seguire le politiche dei suoi predecessori firmando un rinvio del Jerusalem Embassy Act del 1995 che stabilisce il trasferimento della sede diplomatica statunitense nella Città Santa. La decisione ormai incombe: venerdì scade il termine dell’ultima proroga decisa lo scorso dicembre dal suo predecessore Barack Obama.
Un eventuale rinvio, sia chiaro, non vuol dire però che questa decisione non verrà presa in futuro. Benché non ci sia ancora una data precisa, infatti, il leader repubblicano, fanno sapere le fonti, resta fedele alla sua promessa fatta l’anno scorso durante la sua campagna presidenziale. A dominare a Washington è per ora la prudenza. Ieri il portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer, è rimasto molto sul vago sulla questione limitandosi a dire alla stampa che “una volta presa la decisione, la comunicheremo”.
Il silenzio del vulcanico presidente americano sul tema Gerusalemme è figlio di un dilemma difficile da risolvere: accontentare gli israeliani (e tutti i loro sostenitori all’interno dell’amministrazione Usa e tra le potenti lobby e organizzazioni, non solo ebraiche, del Paese), ma scatenare la rabbia dei palestinesi e, almeno formalmente, quella degli alleati arabi e occidentali o, piuttosto, procrastinare la decisione mettendo in moto il “processo di pace” come ha annunciato durante la sua recente visita in Israele e a Betlemme? Ben inteso: non che Trump abbia a cuore la pace (sarebbe un ossimoro visto che ha venduto ai sauditi 110 miliardi di dollari in armi), ma il presidente sa perfettamente che mantenere in vita la semplice illusione della riconciliazione tra le due parti (Tel Aviv e Ramallah) può garantirgli diversi vantaggi. In primo luogo lo accrediterebbe come leader mondiale assoluto facendo ritornare gli americani prepotentemente protagonisti in Medio Oriente dopo il “ritiro” di Obama dalla regione.
In secondo luogo perché la riattivazione dei negoziati di pace rappresentano formalmente la carta di scambio da presentare agli alleati arabi per la costruzione di un ampio fronte anti-Iran. Un’alleanza, suggellata nel vertice di Riyadh una decina di giorni fa, che potrebbe vedere l’inserimento anche d’Israele. In pratica una vera e propria “normalizzazione” dei rapporti con quella che un tempo la retorica araba definiva “l’entità sionista”, ma che appare sempre più utile nella lotta contro gli ayatollah e i suoi alleati.
Ma a rovinare i piani di “collaborazionismo” dei governanti arabi con Tel Aviv potrebbe essere proprio Gerusalemme, tra le questioni più spinose dell’intero conflitto israelo-arabo-palestinese e di cui ricorrono quest’anno i 50 anni dell’occupazione israeliana della sua parte est. Un’occupazione insostenibile per i palestinesi, ma che nel dizionario della maggior parte degli israeliani, diventa “riunione della capitale indivisibile”.
Lo spostamento dell’ambasciata non sarebbe un puro cambiamento formale, ma esaudirebbe per la prima volta il tanto agognato desiderio d’Israele di vedersi riconosciuta la città come sua “capitale” (possibilità finora negata dall’Onu). Anche nella zona orientale che per gli accordi internazionali, però, dovrebbe essere la capitale del futuro stato palestinese. Una decisione quindi sicuramente foriera di pesanti conseguenze politiche non solo in ambito palestinese, ma anche in quello arabo. Vista la complessità della questione, non sorprende la prudenza delle amministrazioni americane sul tema: il suo status, hanno ripetuto da Washington nel corso dei decenni, deve essere deciso solo attraverso i negoziati tra israeliani e palestinesi.
Trump appare ancora incerto su come gestirà questa patata bollente che lui stesso ha creato. Non tanto nell’immediato (venerdì) dove il rinvio appare la scelta più probabile, ma nei mesi a venire. Tra i suoi consiglieri e nel mondo repubblicano le pressioni su di lui sono forti affinché mantenga le promesse elettorali. Senza dimenticare che l’ampio elettorato pro-israeliano che lo ha preferito alla Casa Bianca vuole ora essere premiato.
Nel dubbio trumpiano “Tel Aviv o Gerusalemme?”, scorre la vita quotidiana. Stamattina le forze armate israeliane hanno ferito gravemente una donna palestinese dopo che, sostiene l’esercito, aveva accoltellato un soldato all’ingresso della colonia israeliana di Mevo Dotan (distretto di Jenin). La donna sarebbe ricoverata in condizioni definite critiche. Leggere ferite, invece, per il militare.
Ieri, intanto, un rapporto rilasciato dall’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari umanitari (Ocha) ha denunciato le politiche israeliane perché “fattori chiave delle necessità umanitarie” nei Territori Occupati palestinesi. L’Ocha stima che 4,8 milioni di palestinesi sono colpiti dall’occupazione: due milioni di loro “hanno bisogno di assistenza umanitaria e protezione” e sono esposti al conflitto, violenza, trasferimento forzato, accesso limitato alle infrastrutture essenziali e ai servizi. “La prolungata occupazione, da cui non si vede una via d’uscita, coltiva un senso di frustrazione e disperazione che influenza sia i palestinesi che gli israeliani” si legge nel rapporto.
Stamattina, in occasione della Giornata internazionale di protezione dei bambini, l’Autorità palestinese (Ap) ha detto che le forze israeliane hanno ucciso 3.000 minori tra il 2000, quando la Seconda Intifada è iniziata, e l’aprile del 2017. 13.000 i feriti. Nena News
Roberto Prinzi è su Twitter @Robbamir