A un mese dal voto un governo non è nato e il paese rischia il caos: quattro arresti per l’incendio delle schede elettorali a Baghdad, disarmo lontano e i nuovi tentativi divisivi di al-Maliki
della redazione
Roma, 12 giugno 2018, Nena News – Quattro persone sono state arrestate ieri sera con l’accusa di aver appiccato l’incendio nell’edificio, nel quartiere di al-Russafa a Baghdad, dove erano immagazzinate due milioni di schede elettorali del voto del 12 maggio. Tra gli arrestati, tre poliziotti e un impiegato della Commissione elettorale, ha detto stamattina la tv di Stato iracheno.
Domenica, sei giorni dopo la decisione del parlamento di ricontare a mano i voti delle parlamentari di un mese fa, il fuoco aveva distrutto – a quanto dicono fonti interne – il 60% delle schede del distretto di al-Russafa, uno dei più grandi sul piano elettorale della capitale. Subito il ministero dell’Interno iracheno aveva parlato di atto doloso e lanciato una commissione d’inchiesta per individuare le responsabilità. Il primo ministro al-Abadi, ancora in carica, ha da parte sua definito l’incendio “un complotto per danneggiare il paese e la sua democrazia”.
A un mese dal voto, dunque, l’Iraq rischia di entrare in una spirale di caos politico. Le speranze di un cambiamento che metà degli iracheni avevano affidato alle urne sembrano oggi lontanissime. Una settimana fa il parlamento aveva votato a favore di un riconteggio manuale dei voti, dopo che da diverse parti del paese erano giunte denunce di irregolarità, non emerse durante le procedure di voto, definite dagli osservatori ordinate. I parlamentari avevano anche licenziato in tronco i nove membri della Commissione elettorale, sostituendoli con nove magistrati.
In mezzo una “strana” esplosione: il 6 giugno, mentre il parlamento chiedeva il riconteggio, a Sadr City, quartiere sadrista di Baghdad, un deposito di armi e munizioni saltava in aria per errore uccidendo 18 persone e ferendone oltre 90. L’arsenale esploso apparteneva alle Brigate della Pace, milizia sadrista nata dopo la dismissione dell’Esercito del Mahdi. L’esempio palese dei pericoli insiti dietro un armamento diffuso, di milizie non istituzionali, che posseggono un loro esercito e che non rispondono a governo o parlamento.
In seguito all’esplosione Moqtada al-Sadr ha annunciato il disarmo delle sue Brigate e chiesto al ministero dell’Interno di portare avanti un’operazione ampia di disarmo di tutte le milizie attive nel paese. Un gesto di pacificazione che non è stato accolto da nessuno, nemmeno dalle stesse milizie sadriste che non hanno al momento consegnato alcuna arma.
Ieri il religioso sciita, uscito vincitore dalle elezioni con la coalizione Sairoon di cui è parte anche il Partito Comunista, ha indicato nella cancellazione delle elezioni l’obiettivo dietro l’incendio e chiesto unità al paese: “Basta litigare per seggi, posti, guadagni, influenza, potere. Ora è tempo di stare uniti per costruire e ricostruire enon di dare alle fiamme le schiede o ripetere le elezioni per un seggio o due”
Di altro avviso il presidente del parlamento, Salim al-Jabour, che insiste per una ripetizione delle parlamentari: “Il crimine commesso contro il magazzino di al-Russafa è un atto deliberato, un crimine pianificato volto a nascondere frodi e manipolazioni del voto”, ha scritto in un comunicato al-Jabour.
Sullo sfondo una situazione di instabilità che non aiuta il processo di normalizzazione che gli iracheni speravano di vivere dopo il voto. A un mese esatto dalle elezioni un governo non è stato ancora formato nonostante gli appelli di al-Sadr alla creazione di un esecutivo ampio e nazionale, rispettoso delle diverse anime del paese. Gli incontri che il religioso ha avuto con i leader delle diverse formazioni irachene non hanno per ora condotto a nulla, aprendo la strada agli avversari, in testa l’ex premier Nour al-Maliki.
Come si temeva l’ex primo ministro, da molti accusato di essere uno dei principali responsabili delle divisioni settarie interne e dell’ampliamento a macchia d’olio della piaga della corruzione istituzionale, si muove per conto suo. Nei giorni scorsi, riporta Agenzia Nova, avrebbe incontrato a Baghdad il generale iraniano Suleimani, capo dell’unità di élite al Quds delle Guardie Rivoluzionarie e comandante de facto delle milizie sciite irachene che in questi anni hanno combattuto contro lo Stato Islamico. La longa manus di Teheran in Iraq. Con lui e con il leader della coalizione Fatah, federazione delle milizie sciite, Hadi al-Amiri avrebbe discusso della formazione di un governo, probabilmente sciita, con al-Abadi come premier, vista la popolarità della sua figura in tutto il paese.
Al-Maliki, ben poco amato in Iraq, punta dunque sulla popolarità delle milizie sciite, le Unità di Mobilitazione Popolare, che alle elezioni sono arrivate seconde con 47 seggi su 329. E che rappresentano la stabilità militare, la sicurezza, che tanti iracheni anelano dopo decenni di guerra ininterrotta e attentati brutali. Collegando tale percezione all’alto livello di militarizzazione iracheno, si ottiene un quadro poco confortante: se l’armamento di gruppi politici, paramilitari, tribali è radicato in Iraq, fattore quasi culturale di difesa, difficilmente una normalizzazione politica potrà uscire dal mantenimento di privilegi e poteri diffusi che hanno il solo effetto di dividere ancora il paese. Nena News