Il candidato presidente annuncia: “Fuori dalla crisi in due anni”. In un angolo la questione della repressione del dissenso: altri 36 studenti dell’università al-Azhar condannati al carcere
di Chiara Cruciati
Roma, 12 maggio 2014, Nena News – Solo due settimane dividono l’Egitto dalle elezioni presidenziali. Un voto occupato dall’uniforme dell’attuale ministro della Difesa e autore del golpe militare che portò lo scorso luglio alla destituzione del primo presidente democraticamente eletto del Paese. Abel-Fatah Al-Sisi occupa la scena e, accusato di non aver ancora stilato un reale programma elettorale, decide di puntare sulla crisi economica, principale fattore dello scoppio della rivoluzione egiziana nel gennaio 2011.
In un angolo resta la durissima repressione che sta caratterizzando il dopo-Morsi: nel mirino di esecutivo e magistratura, da subito, è finito il movimento dei Fratelli Musulmani – che Al-Sisi ha già promesso di far scomparire una volta presidente – ma l’ondata di censura sta travolgendo tutte le diverse forme di protesta. Ieri è toccato a 36 studenti dell’Università Al-Azhar, condannati a quattro anni di prigione per la partecipazione a manifestazioni pro-Fratellanza. L’università, nota tutto il Paese come una delle principali istituzioni sunnite islamiche, è stata al centro del movimento di protesta contro il colpo di Stato del 3 luglio.
A pagarne lo scotto sono oggi i 36 studenti accusati di aver bloccato le strade e aver minacciato le forze di polizia durante manifestazioni dello scorso dicembre. Alla prigione si aggiunge una multa di circa 3.300 euro a testa. E loro si uniscono ai 29 studenti dello stesso ateneo condannati a pene dai 14 ai 17 anni per proteste, ai 15mila egiziani arrestati dalla caduta di Morsi a oggi e ai quasi mille Fratelli Musulmani condannati a morte dai tribunali del Paese.
La comunità internazionale tace sulla violenta negazione dei diritti di espressione che oggi caratterizza l’Egitto, con gli Stati Uniti che non rinunciano a inviare Apache e denaro per assicurare sotto la propria ala il (probabile) nuovo presidente egiziano, il generale Al-Sisi. Che da parte sua decide di puntare sulla crisi economica, mai realmente affrontata dai precedenti governi, successivi alla rivoluzione del 25 gennaio.
Dallo scorso anno ad oggi si sono susseguiti migliaia di scioperi, di dipendenti pubblici e privati, scesi in piazza contro la questione ancora non risolta del salario minimo. Sullo sfondo una crescita del PIL che secondo il Fondo Monetario Internazionale non supererà il 2,8% nel 2014, il settore turistico ai minimi storici a causa della minaccia terrorismo che fa scappare i visitatori europei, un tasso di disoccupazione che si attesta ancora sul 13% e quello di povertà in continua crescita. L’Egitto del 2014 pare sopravvivere per ora solo grazie al denaro inviato dai Paesi del Golfo a sostegno del nuovo regime anti-Fratellanza.
È il caso delle concessioni di petrolio per un valore di 2,6 miliardi di dollari donati al Cairo nei primi quattro mesi del 2014 da Arabia Saudita e Emirati Arabi e che si vanno ad aggiungere ai quasi 5 miliardi ricevuti dalla seconda metà del 2013 dai Paesi del Golfo. Secondo quanto annunciato dalle autorità, il petrolio coprirà il fabbisogno egiziano di energia almeno fino alla fine di giugno.
In un’intervista a Sky News Arabia, il ministro della Difesa ha promesso il miglioramento delle condizioni di vita del popolo egiziano entro due anni: diminuzione del tasso di povertà, diminuzione del debito estero e interno e soluzione della questione energetica. Aggiungendo: se la gente si solleverà contro di me, me ne andrò senza attendere l’intervento dell’esercito. “Pensate che aspetterò per il terzo tempo? Se la gente scenderà in piazza per protestare, sono al loro servizio. Non posso aspettare che l’esercito mi chieda di andarmene”.
Una regola – quella della voce del popolo – che a quanto pare non vale nel caso dei Fratelli Musulmani, che Al Sisi (che rifiuta di commentare la notizia delle quasi mille condanne a morte) accusa di aver trasformato un problema politico in una guerra religiosa e di aver creato istituzioni parallele allo Stato: “Non è animosità, non è una vendetta. È un loro problema, spetta a loro valutarlo”. Nena News