Intesa giordano-palestinese per una risoluzione da inviare al Consiglio di Sicurezza Onu in difesa dei civili palestinesi. Il ministro degli esteri palestinese vola in Svizzera per richiedere l’applicazione della Quarta convenzione di Ginevra. Il governo israeliano, intanto, ha ieri autorizzato gli ufficiali di sicurezza ad usare la detenzione amministrativa per catturare gli autori dell’omicidio del piccolo Alì
di Roberto Prinzi
Roma, 3 agosto 2015, Nena News – L’Autorità palestinese e la Giordania sarebbero d’accordo ad inviare una risoluzione al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che chieda protezione internazionale per i civili palestinesi. Intervistato dal quotidiano giordano al-Ghad, l’ambasciatore palestinese in Giordania Atallah Khairi ha rivelato che questa decisione è stata presa dopo l’attacco di venerdì da parte (molto presumibilmente) di alcuni coloni israeliani in cui è stato bruciato vivo il neonato Ali Dawabsha e feriti gravemente suo padre, sua madre e suo fratello di 4 anni.
Secondo al-Ghad, il neo segretario generale dell’Olp, Sa’eb ‘Erekat, avrebbe discusso con il ministro degli esteri giordano Nasser Judah su come rispondere diplomaticamente all’incendio di 3 giorni fa avvenuto a Kfar Douma (Nablus). L’azione politica rivelata dal quotidiano giordano sembrerebbe confermare le parole dell’alto dirigente di Fatah, ‘Azzam al-Ahmad, il quale aveva detto che Ramallah stava pensando di avanzare la richiesta di inserire i gruppi estremisti ebraici nella lista del terrorismo internazionale. Intervistato da Maan, Al-Ahmad aveva aggiunto anche che “i palestinesi stanno riconsiderando gli accordi economici, amministrativi e di sicurezza con l’Occupazione [Israele, ndr] come già precedentemente approvato dal Consiglio centrale palestinese”.
“Rivisitazione” delle intese formulate con Tel Aviv che non dovrebbero comprendere quelle relative alla sicurezza che dovrebbero restare immutate. A dirlo implicitamente è stato ieri il presidente Abbas nel corso dell’incontro con una delegazione del partito di sinistra israeliano Meretz. Il leader palestinese ha infatti rassicurato Tel Aviv che il suo governo farà ogni sforzo possibile per prevenire il terrorismo contro gli israeliani: “fin quando sarò qui – ha dichiarato – l’autorità [palestinese] continuerà ad agire contro i tentativi di ferire gli ebrei”. Sui fatti avvenuti venerdì il presidente ha ribadito quanto già aveva detto a caldo 3 giorni fa: “l’attacco a Duma è stato un crimine contro l’umanità. Ma non possiamo dire che sia stato un crimine compiuto da uno squilibrato. Lo dobbiamo considerare com un attacco terroristico”.
Eppur qualcosa si muove a Ramallah. Il ministro degli esteri dell’Ap Riyad al-Malki è partito stamattina alla volta di Ginevra dove farà richiesta al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite per implementare nei Territori Occupati palestinesi la Quarta convenzione di Ginevra che, adottata nel 1949, sostiene la protezione dei civili durante i conflitti armati.
Il viaggio di al-Malki deve essere letto nell’ambito della più generale offensiva diplomatica che starebbe pensando l’Autorità palestinese. Venerdì il presidente Abbas aveva dichiarato che l’Ap avrebbe richiesto alla Corte penale internazionale (Cpi) di aprire una inchiesta su quanto accaduto a Kfar Douma. “Stiamo già preparando un documento che invieremo al Cpi” aveva detto ai giornalisti perché, a suo dire, il fuoco appiccato alla casa dei Dawabshe rientra nella serie di crimini commessi dai coloni e dal governo israeliano. Abbas aveva poi invitato la comunità internazionale a condannare la leadership israeliana. A sostegno delle sue argomentazione, ci sono i numeri. Secondo i dati dell’Ufficio dell’Onu per il Coordinamento degli Affari umanitari, infatti, dall’inizio del 2015 sono stati almeno 120 gli attacchi dei settler israeliani contro i palestinesi a Gerusalemme e in Cisgiordania. L’organizzazione per i diritti umani Yesh Din, inoltre, ha calcola che solo l’1,9% delle denuncie dei palestinesi contro gli attacchi israeliani si è tramutato in condanne.
Imbarazzato da quanto avvenuto venerdì e pressato dallo sdegno (ipocrita) internazionale, il governo israeliano ha ieri autorizzato gli ufficiali di sicurezza ad usare la detenzione amministrativa per rintracciare e catturare gli autori dell’omicidio del piccolo Alì. Un tentativo per far dimenticare agli israeliani in primis, ma soprattutto all’estero, i rapporti forti che legano l’attuale esecutivo con i coloni. In un vertice d’emergenza convocato ieri pomeriggio, i ministri del governo Netanyahu hanno approvato l’uso di “tutti i mezzi necessari” per arrestare gli assassini che hanno appicato il fuoco alla casa dei Dawabsha. Nella riunione, inoltre, si è anche deciso di accellerare la legislazione per contrastare il terrorismo ebraico. E’ stata poi formata una commissione composta dal ministro della Difesa Moshe Ya’alon da quello della sicurezza interna Gilad Erdan e da quella della Giustizia Ayelet Shaked il cui compito sarà “quello di prendere iniziative più efficaci per sedare l’estremismo”.
Ma se da un lato il governo Netanyahu si mostra collaborativo (a parole) nel combattere il “terrorismo ebraico” dei coloni, dall’altro, per bocca dello stesso premier, non perde occasione per attaccare duramente i palestinesi. Ieri il primo ministro ha lanciato una dura stoccata contro l’Autorità palestinese affermando che Tel Aviv e Ramallah trattano i “terroristi” in modi differenti. “A differenza dei nostri vicini – ha dichiarato il primo ministro durante la riunione del suo gabinetto – noi i terroristi li condanniamo e denunciamo. Non diamo alle piazze i nomi degli assassini di bamibni”. Netanyahu ha poi vestito i panni a lui più comodi: quelli del rassicuratore. “Negli ultimi giorni abbiamo assistito a due odiosi crimini – ha detto riferendosi anche all’attacco avvenuto giovedì al Gay Pride a Gerusalemme in cui ha perso la vita l’adolescente Shira Banki – la nostra politica è di tolleranza zero. Ho dato ordine agli ufficiali di sicurezza di catturare gli assassini e assicurarli alla giustizia”.
Intanto, intervistato dal The Jerusalem Post, il parlamentare palestinese alla Knesset Ahmad Tibi ha commentato la chiusura di ieri mattina ai palestinesi di tutti i varchi d’accesso alla Moschea al-Aqsa definendola una “provocazione inutile” da parte delle autorità israeliane che aggiunge “solo benzina al fuoco”. Il leader di Ta’al è poi ritornato su quanto accaduto venerdì affermando che non vi è alcuna differenza quando un palestinese viene ucciso dall’esercito o quando viene arso vivo da un colono. In entrambi i casi, infatti, si tratta di “uccisioni causate dall’occupazione [israeliana]. Tibi si è poi domandato ironicamente: “voi credete che Bibi [Netanyahu] distruggerà le case delle famiglie delle persone che hanno compiuto questo atto? Andranno a richiedere i campioni del Dna di tutti i maschi della colonia [da cui provengono gli assassini] come fanno con gli arabi?
Le parole di Tibi sono state un triste presagio. In tarda mattinata le forze armate israeliane hanno sparato e ferito un uomo palestinese al checkpoint di Zaatara (Nablus). Secondo il portale israeliano Ynet, l’uomo, fermato per dei controlli, avrebbe chiesto il permesso di andare in bagno e, una volta accordato, avrebbe tentato di fuggire. I soldati, a quel punto, riporta la fonte israeliana, avrebbero sparato in aria prima di colpire “le estremità basse” con un colpo unico. Quale che sia la realtà dei fatti, una cosa è certa: in questo caso nessuno sdegno internazionale si leverà. Nena News