Un focus sul Palestine Film Unit e il suo regista più influente: le immagini, i racconti, le storie nell’arte di Mustafa Abu Ali. I suoi film, tra cui “They do not exist”, presi in custodia negli anni ’70 dal Partito Comunista Italiano
di Cecilia D’Abrosca
Roma, 5 dicembre 2016, Nena News – Giovani registi palestinesi, libanesi e siriani formano un movimento intellettuale e cinematografico che pratica la resistenza nel nome del Palestine Film Unit (PFU), divisione dell’Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), dedicata al cinema militante. Il progetto unanime, cominciato nel 1968, è di descrivere, attraverso le immagini, le condizioni dei rifugiati palestinesi, gli effetti della guerra civile in Libano e le azioni israeliane.
Trovarsi sul campo, in concomitanza di particolari eventi, vuol dire assistervi, catturare momenti decisivi, permettere la conoscenza di una realtà inaccessibile ai più. Il racconto della quotidianità avviene nella forma del documentario, genere che ambisce ad attirare l’attenzione su un aspetto specifico o contesto, in questo caso quello mediorientale tenuto in isolamento culturale, sociale e geografico, a causa delle particolari circostanze storiche che lo attraversano. La vita in quei luoghi, attraversata da regole e restrizioni, si mostra attraverso immagini che contribuiscono a creare pathos e identificazione nel pubblico che, guidato dal narratore-regista-autore, ha facoltà di “entrare” in ciò che vede.
Le immagini filmate sono momenti di vita altrui capaci di rendere il valore che assume in particolari luoghi e situazioni, presi come parametri di definizione del “vivere”, discostandosi da una comune percezione diffusa in Occidente. Sono le azioni e reazioni poste in essere dai civili libanesi e/o dai rifugiati palestinesi a dare risposte concrete sugli effetti, in termini psicologici, sociali ed economici che, l’occupazione, i bombardamenti e le invasioni comportano. La telecamera dà sostegno e rinforza la battaglia per la dignità, intentata dai civili, motivati a dovere smantellare lo status quo. Di pari passo, il movimento cinematografico, in virtù di un linguaggio visivo e testuale, concorre ad alimentare la resistenza, esercitando una funzione ausiliaria.
Il documentario attiva mediazioni di poco conto tra lo spettatore e le scene messe in sequenza, al punto tale che il significato della rappresentazione è immediato. Non è essenziale ricorrere ad orpelli e abbellimenti di sorta, ché nulla hanno a che fare con la volontà di documentare zone ad alta conflittualità sociale e politica. Il momento storico che accompagna l’attività del PFU condiziona l’intero percorso di lavorazione: numerose le asperità e i rischi che decine di sceneggiatori, registi e documentaristi corrono in nome dell’ideale di libertà e del bisogno di informare.
L’instabilità politica impone agli autori continue limitazioni e pratiche di autocensura. Molti di loro non lo accettano e pensano di mettere in salvo gli audiovisivi portandoli fuori dal Medio Oriente. Il ruolo del Partito Comunista Italiano, in questa fase, è decisivo, in quanto, diverrà custode e depositario di svariate pellicole, alcune delle quali sono state rinvenute qualche anno fa.
Gli anni ’70, da un punto di vista culturale, sono orientati dalle posizioni del movimento, che si occupa di costruire la trama politica e il tessuto sociale di zone devastate.
Chi fissa le direttive del cinema militante in Giordania e poi in Libano? Mustafa Abu Ali, in primis, assieme a Sulafa Jadallah, Hani Jawhariah e Salah Abu Hannood, coadiuvati da giovani volontari che condividono il medesimo percorso. Molte altre personalità affiancano Abu Ali e i suoi colleghi: Khadija Abu Ali, Ismael Shammout, Rafiq Hijjar, Nabiha Lutfi, Fuad Zentut, Jean Chamoun and Samir Nimr.
Mustafa Abu Ali, ispiratore del gruppo di intellettuali, traccia le linee di un nuovo cinema dai risvolti politico-sociali, che abbia ad oggetto la resistenza dei popoli in tutte le sue forme. Nasce nel 1940 a Mahila, in Palestina, studia prima a Berkeley e poi a Londra, dove frequenta la scuola di cinema.
Scrive e dirige They Do Not Exist (1974), ispirato alla dichiarazione di Golda Meir, ex Primo Ministro israeliano: ”Chi sono i Palestinesi? Io non conosco nessuno sotto questo nome, essi non esistono”. Il film tocca, in modo esplicito, la questione palestinese; il punto di vista del regista è quello di pensare al rapporto tra i due popoli in termini di conflitto di civiltà, in cui una cerca di prevalere sull’altra. La colonna sonora ha un ruolo rilevante: la musica mediorientale fa da commento alle scene di vita ordinaria nei campi di rifugiati, Bach, invece, segue gli esisti dei bombardamenti. Il film si lega alla sperimentazione di un nuovo linguaggio filmico e narrativo, che gli vale l’Honor Diploma al Leipzig Film Festival, in Germania nel 1974 e il premio dell’Arab Criticism Union dal Cartage Film Festival di Tunisi, nel 1978.
Dal 1975 al 1990 la guerra civile in Libano vede la presenza israeliana mischiarsi al timore della perdita del patrimonio cinematografico accumulato. In parte ciò accade. Ma è anche vero che, si scopre poi, alcune copie di They Do Not Exist sono state tratte in salvo e portate in Europa, altre, nascoste a Beirut. Trasferire i filmati per sottrarli alla distruzione e per salvaguardare l’incolumità degli artisti, è il principio della decisione.
Nessuno dei film della divisione è visto da una platea palestinese fino al 2003, anno in cui They Do Not Exist, il film di Mustafa Abu Ali, viene proiettato a Gerusalemme. Solo di recente, dunque, la Palestina ha conosciuto l’immagine ad essa associata, commentata e ampliata, da registi e assieme narratori che, in forma di dialogo, interagiscono con un altro punto di vista, in forma co-autoriale (si tratta di un tipo di documentario che nasce dal lavoro incrociato di due registi presenti durante tutta l’opera con la loro voce).
Dopo 40 anni di esilio, Abu Ali ritorna in Palestina (a seguito degli accordi di Oslo), ma non ottiene il permesso di entrare nella sua città e viverci. Potrà solo risiedere a Ramallah. L’area di Mahila è oggi nota come Malcha Mall Kenion; dal conflitto arabo-israeliano del 1948, i suoi abitanti acquistano lo status di rifugiati e da allora è vietato loro ritornarvi.
Il contributo di Abu Ali al cinema palestinese e alla storia del cinema è notevole, sia termini di linguaggio sia di contenuti. Ha diretto oltre 30 film e ha conseguito più di 14 premi, ha lavorato con Jean-Luc Godard (che più volte si è recato in Palestina), il quale lo ha sempre definito “un’anima palestinese”. Allo stesso modo, Abu Ali parla di Godard, prima della sua morte avvenuta nel 2001, usando queste parole: “È un grandissimo regista, consacrato all’arte e al lavoro, dotato di un dirompente immaginario. Entrambi eravamo concentrati a ricercare un nuovo linguaggio cinematografico da adoperare nella lotta per la libertà dei popoli”.
Grazie al suo ruolo all’intero del Comitato esecutivo dell’Arab Documentary Filmmakers Union, è riconosciuto dalla comunità internazionale dei registi. Nel 1975, ha inoltre pubblicato il testo On the Palestina Cinema. Nena News