Ieri scuole, fabbriche e negozi chiusi contro la nuova legge. In migliaia hanno manifestato a Ramallah. Alla base sta la quasi totale assenza di fiducia di cui gode oggi l’Autorità Nazionale Palestinese
della redazione
Roma, 16 gennaio 2019, Nena News – I palestinesi della Cisgiordania tornano in piazza dopo le proteste di novembre contro la riforma pensionistica dell’Autorità Nazionale Palestinese. Ieri in migliaia hanno manifestato contro la nuova legge, entrata in vigore il primo novembre: il timore dei lavoratori sta nell’uso dei fondi che saranno raccolti dalla Previdenza Sociale, prelevandoli dagli stipendi dei dipendenti per coprire le pensioni. Ma, dicono sindacati e lavoratori, il vero obiettivo dell’Anp è fare cassa. E la paura è che Israele, che secondo gli accordi stipulati negli anni Novanta con Olp e Anp raccoglie il denaro delle tasse, possa congelarli come spesso accaduto in passato come forma di pressione politica sulla leadership palestinese.
E così ieri è stato indetto un nuovo sciopero con negozi, università e organizzazioni, scuole pubbliche e private e fabbriche chiuse nelle città della Cisgiordania, da Ramallah a Nablus, da Betlemme a Hebron, e gli avvocati che rifiutavano di presenziare alle udienze nei tribunali. A Ramallah, la città che ospita le istituzioni dell’Anp in migliaia hanno manifestato di fronte al quartier generale della Social Security Corporation dell’Autorità ad al-Bireh.
Lamentano la totale indifferenza alle richieste della gente, spiega Muhammad Zghayyer, portavoce del comitato di protesta: “Lo sciopero è il modo per dire all’Anp che la maggior parte del popolo palestinese è contrario a questa legge e si rifiuta di rispettarla. Nonostante il 90% dei negozi e gli uffici pubblici siano chiusi e nonostante le costanti manifestazioni di questi mesi, il governo rifiuta di ascoltarci”, dice a Middle East Eye.
Secondo quanto previsto dalla riforma, le pensioni saranno coperte prelevando il 10% agli stipendi dei dipendenti pubblici e il 7% da quelli privati. Compresi i lavoratori che ricevono solo il salario minimo, 1.450 shekel, circa 300 euro: una miseria con cui è già impossibile arrivare alla fine del mese.
Ieri le aziende con più di 200 impiegati hanno iniziato a registrarci, secondo quanto previsto dalla nuova legge, alla Palestinian Social Security Corporation – hanno tempo fino al 2020 – mentre funzionari palestinesi hanno risposto alle critiche. Majed el-Helo, responsabile del programma, ha parlato all’agenzia Wafa di “grandi emendamenti”, tra cui la previsione di pensioni di reversibilità a vedovi e vedove.
Tutti elementi centrali nei sistemi pensionistici in giro per il mondo, ma che in Palestina ha un significato diverso, come sottolineano i lavoratori: l’Anp non è uno Stato né un governo, è un’entità amministrativa sotto occupazione militare, di cui buona parte della popolazione non si fida affatto, sia per le relazioni con Israele sia per la debolezza nei confronti delle autorità di Tel Aviv che ha l’ultima parola.
“Cosa succede se l’occupazione israeliana decide che i soldi del fondo sostengono i ‘terroristi’ e in qualche modo decide di confiscarlo? – aggiunge Zghayyer – Chi ci promette di proteggere i nostri soldi? Di certo non l’Anp. Se non c’è fiducia tra i cittadini e il governo, queste leggi non possono funzionare”. A monte, dunque, la questione è politica: la quasi totale di consenso di cui gode l’Autorità tra la gente, eroso da anni di corruzione, cooperazione alla sicurezza con Israele e un’élite verticistica che ha impoverito la base. Nena News