A rivelarlo è uno studio del Centro di statistiche israeliane pubblicato ieri. Netanyahu, intanto, attacca Abbas esortandolo ad “ad educare i giovani alla pace, non al terrorismo” e respinge l’accusa di aver finanziato i ribelli siriani. A Gaza, intanto, l’elettricità disponibile si riduce di 45 minuti
della redazione
Roma, 20 giugno 2017, Nena News – Le costruzioni negli insediamenti israeliani nei Territori Occupati palestinesi procedono a passo spedito. Secondo uno studio pubblicato ieri dal Centro di statistiche d’Israele, infatti, il numero delle costruzioni nel 2016-2017 ha visto un incremento del 70% rispetto ai 12 mesi precedenti.
I dati parlano chiaro: fra l’aprile del 2016 e il marzo 2017 ci sono state 2.758 costruzioni negli insediamenti della Cisgiordania rispetto alle 1.619 dello stesso periodo tra il 2015-2016. All’inizio di quest’anno sono iniziate 344 nuove costruzioni, 839 tra ottobre e dicembre 2016, 478 tra luglio e settembre, 1097 fra aprile e giugno. Inoltre, sottolinea lo studio, dall’inizio di quest’anno sono state 403 le unità abitative completate nei Territori Occupati.
Va precisato, poi, che i dati pubblicati ieri non includono i lavori edilizi in quelli che Israele definisce i “quartieri” ebraici di Gerusalemme est, insediamenti per il diritto internazionale. I numeri risultano essere ancora più significativi se confrontati con quelli relativi a Israele dove nello stesso intervallo di tempo si è registrato un calo edilizio. Ad esempio nell’area settentrionale e centrale, il settore immobiliare ha visto una diminuzione del 6,5%, 4% nell’area di Gerusalemme e 1% al sud segnalando un aumento (6,5%) soltanto nell’area di Haifa.
Per la ong israeliana Peace Now, i dati sono “preoccupanti” e mostrano come “il governo Netanyahu abbia abbandonato la periferia” avvantaggiando però “la minoranza estremista al di là della Linea Verde [i confini pre-1967, ndr]. L’organizzazione non governativa di sinistra ha poi evidenziato come l’attività coloniale di Tel Aviv segua un piano ben preciso: il 70% delle nuove costruzioni nei Territori Occupati, infatti, ha luogo “negli insediamenti isolati che Israele dovrà evacuare all’interno di un accordo di pace permanente basato su una soluzione a due stati”.
Lo studio, in definitiva, spiega più di tante parole come l’esecutivo di estrema destra israeliano guidato da Netanyahu sia sempre più a trazione coloni. Ciò non deriva soltanto dal pressing incessante all’interno della coalizione governativa di un partito come “Casa ebraica”, megafono delle istanze dei settler. Ma sia un piano condiviso senza problemi anche dal premier e dalla sua formazione politica (il Likud). Ieri il primo ministro lo ha voluto ribadire con una certa fierezza: “Non c’è stato e non ci sarà nessun governo migliore per gli insediamenti che quello nostro”. “Costruiremo – ha aggiunto – in tutte le parti del paese con determinazione, metodicamente e saggiamente”.
Ieri, poi, Netanyahu è tornato ad attaccare il presidente dell’Autorità palestinese (Ap) Mahmoud Abbas perché “avvelena le menti dei giovani palestinesi” istigandoli all’odio contro Israele e lo ha esortato pertanto a “educarli alla pace, non al terrore”. I motivi per attaccarlo sono stati questa volta l’intitolazione di una piazza a Khaled Nazzal (esponente dell’ala militare del Fronte democratico mente del massacro di Maalot del 1974 e assassinato dal Mosad nel 1986) e il sostegno di Fatah, di cui Abbas è il capo, all’attacco di venerdì a Gerusalemme in cui ha perso la vita la poliziotta israeliana Hadas Malka (oltre a due aggressori).
Ma l’attacco al leader dell’Ap, però, non è casuale e appare pretestuoso: ieri è arrivato in Israele l’inviato speciale Usa Jason Greenblatt e fra due giorni atterrerà in Terra Santa il genero del presidente Usa Trump, Jared Kushner. L’obiettivo? Riportare in vita il processo di pace con Netanyahu e Abbas. I tweet di ieri del premier israeliano, da sempre contrario a qualunque intesa con i palestinesi, non appaiono dunque non casuale: l’intento è quello di sabotare sin dall’inizio il tentativo, per la verità timido, di Washington di riattivare l’iniziativa diplomatica tra le due parti.
Il premier israeliano ha poi voluto smentire un articolo di domenica del Wall Street Journal in cui il quotidiano statunitense ha accusato Israele di aver fornito aiuto finanziario ai gruppi ribelli in Siria. “Non interferiamo in questo terribile e sanguinoso conflitto – ha detto il primo ministro visitando il centro sanitario Ziv di Safed dove sono stati ricoverati centinaia di feriti delle guerra siriana – Noi, invece, forniamo aiuto umanitario ai giovani ragazzi e ragazze. E’ costoso, ma continueremo a farlo”.
Israele, intanto, ha iniziato a ridurre l’elettricità nella Striscia di Gaza da 120 a 112 megawatt come richiesto dall’Ap. La riduzione si tradurrà nei fatti in 45 minuti in meno di elettricità. Tantissimo soprattutto se si tiene presente che prima dell’azione congiunta Ramallah-Tel Aviv erano soltanto 4 le ore di elettricità disponibili al giorno per la popolazione. I fatti risalgono a poco tempo fa quando il presidente Abbas ha comunicato che avrebbe pagato soltanto il 60% della quota di elettricità che lo stato ebraico fornisce a Gaza e, di conseguenza, ha chiesto a Tel Aviv di tagliare il 40% dell’elettricità per la Striscia.
Non è l’unica mossa implementata recentemente dal leader Ap che peggiora la già difficile condizione dei 2 milioni di persone che vivono questo piccolo lembo di terra. Abbas, infatti, ha ridotto del 30% gli stipendi di 70mila impiegati dell’Autorità palestinese e ha poi tagliato il finanziamento del gasolio per la centrale elettrica. L’intento è chiaro: il leader di Fatah è convinto che il peggioramento della situazione nella Striscia poterà alla ribellione della popolazione contro i rivali islamisti di Hamas. Nena News