Quest’anno la crisi idrica è ancora peggiore del solito: Tel Aviv accusa l’Anp, l’Anp accusa Israele. Intanto Salfit, Nablus, Jenin e i campi profughi non hanno acqua da settimane
di Chiara Cruciati
Roma, 25 giugno 2016, Nena News – L’acqua non c’è e Israele e Autorità Palestinese giocano allo scaricabarile. In mezzo restano i palestinesi della Cisgiordania, delle comunità agricole e dei campi profughi, alle prese quest’anno con una carenza d’acqua ancora peggiore degli anni passati. Nei campi di Dheisheh,a Betlemme, e Balata, a Nablus, nella città settentrionale di Salfit, nei villaggi agricoli nella zona di Nablus e Jenin.
Che le risorse idriche d’estate scarseggino più del solito le famiglie palestinesi lo sanno bene: arriva raramente dalle tubature israeliane che preferiscono – con il caldo – garantirla alle colonie. Quest’anno, però, Israele prova a difendersi accusando l’Autorità Nazionale Palestinese di avere infrastrutture troppo vecchie, principale ragione della mancanza d’acqua. Insomma, secondo Tel Aviv l’acqua viene mandata come sempre ma se viene sprecata è a causa della rete idrica antiquata che ne perde troppa: questo gap, dice il portavoce della Water Authority israeliana, Uri Schor, “impedisce il trasferimento di tutta l’acqua necessaria alla regione”.
E qua c’è il primo problema. Se fosse così, Israele dovrebbe anche ricordare che per svolgere lavori infrastrutturali in buona parte della Cisgiordania, l’Anp deve ottenere il permesso israeliano. Può svolgerne con relativa tranquillità nel 18% della Cisgiordania, Area A, sotto il controllo militare e civile palestinese. Con maggiori difficoltà può svolgerli in Area B. Impossibile, invece, raggiungere il 60% della Cisgiordania, sotto controllo totale israeliano. Lì l’acqua va comprata con le cisterne, neanche a pensarci di ottenere un permesso da parte israeliana per costruire tubature e reti idriche.
Per cui la diatriba Anp-Israele riguarda una piccola parte del territorio. Il governo di Ramallah si difende: la compagnia israeliana Mekorot (che gestisce le risorse idriche dentro lo Stato di Israele ma anche nei Territori Occupati, rivendendo ai palestinesi le proprie risorse d’acqua) – dice l’Anp – garantisce quote maggiori d’acqua alle colonie. Un dato già noto: secondo la federazione di associazioni Ewash, i coloni israeliani ricevono in media 240 litri d’acqua al giorno, mentre i palestinesi della Cisgiordania 73. L’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda un uso di 100 litri d’acqua al giorno a persona.
“Le tubature non vanno migliorate – dice un funzionario della Palestinian Water Authority ad Haaretz – UsaAid ha appena completato la nuova rete a Deir Sha’ar che serve Hebron e Betlemme. Israele deve aumentare l’afflusso e oltre mezzo milione di palestinesi riceveranno il dovuto. Ma Israele ricatta l’Ap: vuole che approviamo il progetto israeliano per servire le colonie nell’area di Tekoa, altrimenti non invierà più acqua a Deir Sha’ar”. Secondo gli accordi successivi ad Oslo, infatti, l’autorità dell’acqua palestinese e quella israeliana sono riunite in un comitato congiunto che decide i progetti idrici da realizzare nei Territori Occupati. È formato da un terzo soggetto, l’esercito israeliano, che fa pendere a favore di Tel Aviv il potere decisionale.
La situazione però va risolta: interi villaggi non hanno acqua corrente da settimane. Comprare le cisterne diventa impegnativo, visto il costo dieci volte maggiore del normale. Non c’è acqua per le persone, ma neppure per gli animali e per i campi e le fattorie, spesso piccole attività familiari che sono l’unica fonte di sostentamento in molte comunità agricole. “Quando le misure discriminarie israeliane vengono implementate in primavera ed estate – scrive in un comunicato Ewash – quando la richiesta d’acqua è naturalmente maggiore e le colonie vengono sistematicamente privilegiate, i palestinesi si ritrovano a vivere in condizioni molto difficili”.
Così le cisterne sopra i terri palestinesi, usate per immagazzinare più acqua possibile le poche volte che arriva, sono vuoti. Ma stavolta lo sono da troppo tempo: anche nel campo profughi di Dheisheh, dove dicono di essere abituati ai tagli d’acqua, stavolta cominciano ad essere seriamente preoccupati.
“Accade ogni anno – dice Naji Owdah, direttore del centro Laylac – Nella gran parte del campo l’acqua è disponibile poche volte durante l’estate. E quando ci mette troppo ad arrivare, i ragazzi scendono in strada”. Lo hanno già fatto: i palestinesi dei campi hanno marciato per protesta prima a Betlemme, poi a Ramallah. Con una convinzione: che la colpa sia di tanti, dall’Onu all’Anp a Israele. “La gente sta capendo che in molti ottengono vantaggi da questa situazione – conclude Owdah – Una sorta di mafia dell’acqua”. Nena News
Chiara Cruciati è su Twitter: @ChiaraCruciati