Durante una manifestazione sciita a Daih, un ordigno è esploso lungo la strada. La tensione non cala nel regno degli Al Khalifa, impegnati in una dura repressione delle opposizioni, mentre fingono di cercare il dialogo.
dalla redazione
Roma, 4 marzo 2014, Nena News – Ieri tre poliziotti bahreiniti sono rimasti uccisi in’un esplosione durante una manifestazione di protesta nel villaggio di Daih, a Ovest della capitale Manama. Tra le vittime anche un poliziotto membro del Consiglio della Cooperazione del Golfo, inviato in Bahrein dagli Emirati Arabi.
La bomba è esplosa mentre la polizia stava disperdendo la folla di manifestanti: secondo il Ministero degli Interni l’ordigno sarebbe stato piazzato vicino ad un lampione su Budaiya Road, dopo che i manifestanti che partecipavano ad un funerale avevano bloccato la strada, per poi esplodere mentre i poliziotti disperdevano i partecipanti. Il Ministero ha aggiunto che altri due ordigni sono esplosi nel villaggio senza provocare vittime, mentre un terzo veniva disinnescato.
La manifestazione che si stava tenendo ieri è partita dai funerali di un 23enne sciita ucciso la scorsa settimana mentre si trovava in carcere. Secondo il Ministero degli Interni era accusato di aver contrabbandato armi: le cause della morte sarebbero, secondo le fonti ufficiali, naturali, ovvero sarebbe morte per una malattia.
Immediata è giunta la reazione dei principali gruppi di opposizione al regime che hanno condannato l’attacco e ricordato che lo strumento di protesta utilizzato da tre anni a questa parte è la resistenza pacifica, nell’obiettivo di giungere a riforme serie e profonde del Paese attraverso il dialogo politico. Da tre anni ormai, nel silenzio della stampa mondiale, il Bahrein è teatro di lunghe e ripetute proteste da parte della comunità sciita che accusa il regime sunnita, stretto alleato degli Stati Uniti, di discriminazione politica e sociale. Dal 2011 ad oggi le proteste non si sono mai fermate, provocando decine di morti ma senza giungere mai a rivolte di vaste dimensioni anche a causa dell’intervento di Arabia Saudita e Emirati Arabi che hanno inviato sostegno militare per fermare manifestazioni e proteste. La rivoluzione di Piazza della Perla, come fu ribattezzata dal nome della principale piazza di Manama, fu soffocata nel sangue dagli uomini del Consiglio della Cooperazione del Golfo.
Le richieste delle opposizioni sono chiare: riforme democratiche che permettano la partecipazione di ogni componente etnica, religiosa e politica alla vita del Paese, guidato oggi da una sola famiglia, quella dei Al Khalifa. Nel 2013 si era tentata un’apertura, ma il dialogo avviato tra il governo sunnita e le opposizioni sciite era naufragato a causa dell’incessante repressione degli Al Khalifa contro le varie forme di dissenso messe in piedi dagli opposizioni: centinaia gli attivisti arrestati, tra cui decine di minorenni, mentre la stampa indipendente viene costantemente presa di mira.
Il piccolo arcipelago che si affaccia sul golfo Persico è di rilevanza strategica per gli alleati occidentali, in particolare per gli Stati Uniti che qui hanno la loro V flotta, quella impegnata nel conflitto in Afghanistan. Inoltre, il regno dominato dai Khalifa è da sempre segnato da tensioni religiose ed è al centro del confronto tra due potenze regionali: l’Iran sciita e il regno sunnita dei Saud. Le stesse proteste hanno ormai uno stampo settario: la comunità sciita denuncia vessazioni da parte della casa reale, mentre il governo accusa l’opposizione, rappresentata soprattutto dal blocco sciita Wefaq (i partiti sono vietati), di essere una pedina nelle mani di Teheran e i manifestanti di essere terroristi.
Sul tavolo della trattativa ci sono le riforme istituzionali per garantire una maggiore rappresentanza e partecipazione ai cittadini del regno, diventato una monarchia costituzionale nel 2002. Ma la fine del sultanato e una serie di riforme calate dall’alto non hanno intaccato l’oligarchia sunnita né il potere assoluto del monarca che ha sempre l’ultima parola su tutto. Nena News