Ieri a poche di distanza un missile ha colpito una corvetta della guardia costiera in Sinai e un’autobomba è esplosa fuori dal più grande carcere saudita. La risposta dei governi? L’oppressione di voci critiche e minoranze.
della redazione
Roma, 17 luglio 2015, Nena News – Egitto e Arabia Saudita: due attacchi ieri a poche ore di distanza sono stati rivendicati dallo Stato Islamico, o gruppi affiliati, a dimostrazione del potenziale regionale del movimento.
In Arabia Saudita un’autobomba è esplosa ad un checkpoint sulla strada per Riyadh, vicino alla più grande prigione del paese, Ha’er, (dove sono detenuti 1.375 prigionieri, di cui centinaia appartenenti a gruppi islamisti), uccidendo il kamikaze e ferendo due guardie della sicurezza. Il ragazzo alla guida ha fatto saltare in aria l’auto dopo che ufficiali della sicurezza l’avevano circondata. Poco prima, pare, aveva ucciso lo zio, un colonnello saudita.
Secondo l’agenzia di Stato Spa, l’attentatore aveva solo 18 anni e si chiamava Abdullah Fahd Abdullah al-Rashed. Subito online è apparsa la rivendicazione dello Stato Islamico che ha celebrato le due azioni, autobomba e omicidio.
L’attacco giunge a poca distanza dal doppio attentato suicida che il 22 maggio ha colpito le moschee sciite Imam Ali e Al Qudaih, nella città a maggioranza sciita di Qatif, provocando 25 vittime e 50 feriti, il primo attacco rivendicato dall’Isis in terra saudita. All’epoca lo Stato Islamico si appellò a sostenitori e simpatizzanti perché portassero avanti attacchi nel paese, alla caccia del facile sentimento anti-sciita che sta crescendo in Arabia Saudita a causa della propaganda sia del governo che di molti predicatori sunniti: l’avanzata del movimento Houthi in Yemen spaventa molti e diventa uno strumento semplice per incrementare settarismi e paure.
Poche ore prima a saltare in aria era stata una corvetta della guardia costiera egiziana, al largo delle coste del Sinai. Un missile ha colpito la nave, subito andata a fuoco come mostrano foto scattate al momento dell’attacco. Secondo il portavoce dell’esercito egiziano, gli uomini a bordo hanno risposto al fuoco sparando sui miliziani lungo la costa. Nessuno – dice il Cairo – è rimasto ferito o ucciso. Una versione che gli attentatori smentiscono, dicendo di aver ucciso tutto l’equipaggio.
A rivendicare l’azione è stato il gruppo islamista Ansar Beit al-Maqdis, da tempo attivo in Egitto ed in particolare nella penisola del Sinai e affiliatosi allo Stato Islamico di al-Baghdadi. L’azione è l’ultima di una serie di attentati compiuti nel paese da gruppi islamisti: a fine giugno una bomba azionata da distanza ha ucciso il capo procuratore del Cairo, Hisham Barakat; due giorni dopo 25 soldati sono stati uccisi in un attentato in Sinai, mentre la scorsa settimana un altro ordigno è saltato in aria a poca distanza dalla sede del Consolato Italiano (anche in questo caso, l’obiettivo sarebbe stato un giudice).
Restano dubbi intorno ai fatti di ieri, a causa delle versioni contrastanti del Cairo e del gruppo islamista. Coincidono solo sul luogo dell’attacco: la nave sarebbe stata colpita al confine con Gaza, nei pressi di Rafah. Un testimone, Nabil Abu Ouda, residente nella Striscia, ha raccontato di aver sentito un’esplosione e di aver visto una nave andare a fuoco.
A preoccupare è però la facilità con cui certi gruppi riescano a compiere attentati sempre più precisi, utilizzando armi sofisticate. Un elemento che fa dire a molti osservatori esterni che la fedeltà riconosciuta allo Stato Islamico da gruppi simpatizzanti si sia tradotta nell’invio da parte del califfato di armi, uomini e forse coordinamento strategico.
La risposta delle autorità egiziane è ormai nota: un’ulteriore stretta contro qualsiasi voce critica o di opposizione. Dal luglio 2013, quando al-Sisi prese il potere nel paese deponendo il legittimo presidente Morsi, Il Cairo è impegnato in una durissima campagna repressiva contro la stampa, i movimenti islamisti (Fratellanza Musulmana in testa) e attivisti politici. La guerra al terrorismo globale, a cui l’Egitto partecipa in pompa magna in Yemen, Libia e Sinai, benedetta dallo scongelamento degli aiuti Usa, è la migliore giustificazione per un ritorno ad uno Stato di polizia, nello stile di Mubarak.
Stamattina durante una manifestazione di protesta dei Fratelli Musulmani nella capitale, sono scoppiati scontri con la polizia: sei sostenitori islamisti sono stati uccisi, altri 15 arrestati. Nena News