I dati sono contenuti nell’ultimo rapporto dell’organizzazione umanitaria Reprieve. In un differente studio, invece, Riyadh è accusata di aver utilizzato in Yemen bombe a grappolo di fabbricazione britannica. Non cessano gli orrori della mattanza yemenita: lo “Stato islamico” ha rivendicato l’attentato suicida di ieri ad Aden in cui sono stati uccisi 52 soldati
della redazione
Roma, 19 dicembre 2016, Nena News – Di una cosa siamo certi: i boia in Arabia Saudita non saranno mai disoccupati. Anche quest’anno, infatti, la monarchia wahhabita ha giustiziato (almeno) 150 persone. A rivelarlo è uno studio dell’organizzazione umanitaria Reprieve. I dati di quest’anno eguagliano quelli del 2015 quando le persone giustiziate sono state 158 e confermano il trend in crescita nel Paese dell’uso della pena capitale. Nel 2014 i condannati al patibolo furono “soltanto” 87, un numero che sembra essere irrisorio se si pensa che nel 2016 sono state giustiziate 47 persone in un solo giorno a gennaio.
Il rapporto di Reprieve, però, non si focalizza solo sull’Arabia Saudita, ma denuncia l’ampio uso che si fa della pena di morte in molti stati del Golfo. Una situazione allarmante che, commenta con amarezza l’organizzazione, rappresenta ormai una “nuova normalità”. Se Ryadh spicca in questa poco ambita classifica, il Kuwait guadagna visibilità perché sta abbassando l’età “legale” per eseguire la sentenza capitale. Reprieve sostiene che molti condannati sono considerati dalle autorità locali casi di “sicurezza nazionale”: non sorprende, dunque, che molte vittime della pena di morte siano dissidenti politici. Tuttavia, aggiunge l’ong, vi sono anche i detenuti che hanno confessato i loro reati sotto tortura. Né, bisogna poi dimenticare i tanti “trafficanti di droga” (concetto assai ampio in Arabia Saudita) giustiziati dai boia arabi.
Ma se per i morti ormai non si può fare più nulla, resta preoccupante la situazione dei giovani e dei minorenni su cui invece pende ancora la sentenza capitale. Tra questi, Reprieve cita i casi di Ali an-Nimr, Davud al-Marhoon e Abdullah az-Zaher che sono stati arrestati per aver partecipato alle proteste contro la monarchia. Le loro vicende hanno avuto ampia eco in Inghilterra al punto che a loro favore è intervenuto in passato anche l’allora premier Cameron.
L’intervento di Downing Street non ha scosso più di tanto i sauditi che sono decisi a rispettare la sentenza. A partecipare al pressing (per la verità modesto) di Londra contro la “legalità” di Riyadh è stato lo scorso settembre anche il ministro degli Esteri Johnson quando ha incontrato il suo pari saudita. L’operato di Londra è, però, insoddisfacente: Reprieve sostiene che il governo inglese non dovrebbe soltanto preoccuparsi che le pene di morte non vengano eseguite, ma che i tre possano essere liberati. Ma le denunce della ong sono parole a vuoto per l’esecutivo May: se da un lato l’Inghilterra invita il partner arabo alla moderazione, dall’altro continua a farci affari d’oro. Il recente tour della premier nella regione – stipulati affari per milioni di euro – ha mostrato quanto poco Londra abbia realmente a cuore la questione dei diritti umani.
Nelle stesse ore in cui viene pubblicato il rapporto di Reprieve, il Segretario di stato Usa, John Kerry, ha incontrato nella capitale saudita il re Salman e il principe ereditario Mohammed bin Nayef. Obiettivo dell’incontro: rimettere in moto il processo di pace in Yemen e discutere della situazione umanitaria in cui versa il Paese. Hanno partecipato al vertice anche Emirati Arabi Uniti (in prima fila nella guerra yemenita) e Oman che, a differenza degli altri Stati del Golfo, si sta rivelando un partner più moderato e abile al compromesso tra le parti.
Parlando a termine del vertice, il ministro degli esteri saudita, Adel al-Jubeir, non è entrato nei meriti di quanto è stato discusso, ma ha preferito smentire le notizie secondo cui gli Usa avrebbero smesso di rifornire la monarchia di armi in segno di protesta per i suoi bombardamenti in Yemen. I media avevano sostenuto recentemente anche di presunti dissidi tra Washington e Riyadh che avevano portato ad una minore cooperazione tra le intelligence dei due stati.
Ammesso pure che il flusso di armi si fosse chiuso o si dovesse chiudere temporaneamente con Washington, i sauditi possono stare tranquilli: sono tanti i Paesi europei che le consegnano nuove e avanzate tecnologie di guerra. Secondo fonti citate dal Guardian, infatti, un’indagine interna compiuta dal governo britannico ha dimostrato come il segretario britannico alla difesa, Micheal Fallon, fosse a conoscenza dell’uso da parte della coalizione saudita di cluster bomb in Yemen. I fatti risalgono ad alcuni giorni fa quando il premier del governo yemenita (non riconosciuto internazionalmente), Abdel Aziz bin Habtour, aveva duramente accusato Londra di “crimini di guerra” perché aveva fornito i sauditi di armi.
Il governo inglese aveva subito fatto sapere che avrebbe preso “molto seriamente” queste accuse e che avrebbe “sollevato la questione” con la coalizione . L’uso delle bombe a grappolo (cluster bombs) piovute dal cielo nelle aree ribelli del Paese è una questione da tempo al centro dei rapporti delle associazioni umanitarie. Amnesty International ha documentato “molti casi” in cui questa devastante arma è stata utilizzata dal blocco sunnita a guida saudita.
“[Gli inglesi] hanno venduto le cluster bomb a Riyadh” aveva detto bin Habtour dagli schermi di Sky News. “Sanno che i sauditi le stanno usando in Yemen a Saadah, a Sana’a e in altre province. [Londra], perciò, sta partecipando ai bombardamenti sul popolo yemenita”.
Ma in Yemen non si muore solo per mano della coalizione e, in misura minore, per quella dei ribelli houthi. Ad approfittare del caos yemenita sono i gruppi jihadisti che hanno già preso possesso di ampie zone di territorio nell’est del Paese. Ieri mattina un attentatore suicida di è fatto esplodere vicino ad un campo militare nella città meridionale di Aden (la “capitale temporanea” del governo Hadi, uomo dei sauditi). Nell’attentato sono morti almeno 52 soldati. 63 i feriti. Immediata è stata la rivendicazione dell’autoproclamato “Stato Islamico” sulla loro agenzia Aamaq. Lo scorso 10 dicembre nella stessa base un’esplosione simile aveva ucciso altri 57 militari. Nena News