Dall’estate 2018 non solo uomini al volante. Ma sono ancora molti i diritti negati. I Saud provano a ripulirsi l’immagine ma la caduta del divieto è merito delle attiviste. Il passo oscura l’ultimo rapporto di Hrw: il clero wahabita istiga all’odio anti-sciita

L’attivista saudita Manal Al Sharif, una delle ispiratrici della campagna delle donne per l’abolizione dell’ufficioso divieto a guidare
AGGIORNAMENTI
Donna nominata portavoce ambasciata saudita a Washington.
L’Arabia saudita per la prima volta ha nominato una donna a portavoce della propria ambasciata negli Stati Uniti. Si tratta di Fatima Baeshen, imprenditrice, con un master sulla finanza islamica alla Chicago University e una laurea in sociologia all’Università del Massachusetts. E’ cresciuta negli Stati Uniti, ha trascorso gran parte della propria infanzia nel Mississippi.
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di Michele Giorgio – Il Manifesto
Roma, 28 settembre 2017, Nena News – Donald Trump, uomo che ha più volte calpestato la dignità delle donne, ha applaudito con entusiasmo al «passo in avanti positivo» fatto dall’alleata monarchia saudita che ha accordato alle donne la possibilità di prendere la patente e, dalla prossima estate, di guidare l’auto. «Il presidente Donald Trump saluta positivamente la decisione del regno saudita di autorizzare le donne a guidare nel regno. Si tratta di un’avanzata positiva per la promozione dei diritti delle donne in Arabia saudita», ha scritto la Casa Bianca in un comunicato. Dichiarazioni e commenti simili si leggono e si ascoltano ovunque in queste ore, in Occidente come nel mondo arabo. Già si parla di un’Arabia saudita avviata sulla strada del progresso grazie a Re Salman e si esalta il giovane principe Mohammad promotore del piano di riforme economiche e sociali “Saudi Vision 2030″. Tanti sottolineano che tre giorni fa, per la prima volta, e grazie ancora al giovane Mohammed, l’Arabia Saudita ha permesso alle donne di andare allo stadio per partecipare alle celebrazioni dell’87esimo anniversario della fondazione del regno. Ed entusiaste sono anche la giapponese Toyota e la sudcoreana Hyundai, dominatrici del mercato dell’auto in Arabia saudita, che prevedono un vertiginoso aumento delle vendite di autovetture.
Certo, non si può non salutare con favore la decisione presa a Riyadh che però non è merito del principe o di suo padre ma della determinazione delle donne saudite che in anni recenti e più lontani, come Manal Sharif nel 2011, hanno sfidato, pagando di persona #IwillDriveMyself, il divieto di guida imposto dall’alleanza monarchia-clero wahhabita. Grazie ai social sono emerse la campagna e altre iniziative ma nessuno può dimenticare le 50 donne che nel 1990 si misero alla guida contemporaneamente finendo poi arrestate, detenute e, infine, costrette a lasciare il lavoro e private della cittadinanza. Allo stesso tempo questa novità potrebbe indurre ad allentare l’attenzione sull’Arabia saudita erroneamente vista sulla strada di profonde riforme, ad ogni livello. Al contrario nel regno proprietà della famiglia al Saud sono tanti i diritti negati alle donne, all’interno di un sistema politico e sociale che proibisce la formazione di partiti e movimenti, di sindacati e associazioni, e nega libertà di pensiero ed espressione. Le donne potranno guidare l’auto ma in generale la loro libertà di movimento resta molto limitata: non possono viaggiare se non accompagnate da un tutore (il padre, un fratello o un parente maschio) che deve dare la sua approvazione anche se vogliono andare all’università, intraprendere delle attività lavorative e persino se devono sottoporsi a trattamenti medici.
Il sospetto è che la monarchia saudita abbia scelto di muovere questo passo non per rispettare un diritto sacrosanto bensì per ragioni economiche – darà una scossa al mondo del lavoro – e per assicurare immunità, almeno parziale, alle sue politiche interne e regionali, contando sul favore che il via libera alla guida alle donne avrebbe ottenuto nei Paesi occidentali, fondamentali per la sua sicurezza e difesa. Mentre da anni in Medio Oriente si parla solo di massacri e violazioni di diritti umani in Siria, l’Arabia saudita tiene nelle sue prigioni migliaia di detenuti politici – tra i quali intellettuali, scrittori e semplici blogger -, porta avanti una guerra sanguinosa in Yemen, non protegge i diritti di milioni di lavoratori stranieri presenti nel suo territorio e continua ad eseguire annualmente dozzine di condanne a morte. Sul piano religioso, i Saud hanno intensificato la repressione delle proteste nelle regioni orientali del Paese popolare da sciiti e una roccaforte delle rivolte , la città di Awamiya, è stata in gran parte distrutta nel silenzio internazionale.
L’entusiasmo per il «passo positivo» fatto dalla monarchia ha inoltre oscurato un rapporto diffuso nelle ultime ore da Human Rights Watch sull’istigazione all’odio degli sciiti che svolgono il clero e le istituzioni pubbliche in Arabia saudita. Il rapporto, di 62 pagine e dal titolo “Non sono i nostri fratelli”, denuncia come sia consentito ai religiosi wahhabiti di offendere e demonizzare, anche in documenti ufficiali, i cittadini sciiti. «Questa istigazione all’odio favorisce la discriminazione sistematica della minoranza sciita ed è usata da gruppi violenti per attaccarla», ha spiegato Sarah Leah Whitson, direttrice per il Medio Oriente di Hrw. Nena News