Mar Egeo. Lunedì a Istanbul riunione “cordiale” ma nessun passo avanti: il negoziato è obbligato dalle pressioni di Stati Uniti e Unione Europea. Ma Ankara e Atene preferiscono mostrare i muscoli
di Marco Santopadre
Roma, 30 gennaio 2021, Nena News – Dopo cinque anni Grecia e Turchia sono tornate a parlarsi. Lo scorso 25 gennaio, nella splendida cornice del Dolmabahçe Sarayı di Istanbul, le delegazioni dei due paesi si sono incontrate per tre ore; la riunione non ha però comportato un riavvicinamento tra i due paesi, anzi. Nonostante il ritorno al tavolo negoziale sulla delimitazione delle zone marittime di competenza (che si trascina ormai dal 1973), Atene ha già avvertito che ogni eventuale soluzione non potrà che rientrare all’interno del diritto internazionale ed ha rifiutato una proposta di mediazione avanzata dal primo ministro albanese Edi Rama. Il presidente turco, invece, ha ribadito che non accetterà una suddivisione delle acque territoriali che gli impedisca di sfruttare i giacimenti di gas presenti nel Mediterraneo orientale, ed ha insistito sulla richiesta di smilitarizzazione delle isole greche dell’Egeo orientale, alcune delle quali apertamente rivendicate dalla Turchia, pretese che Atene non intende neanche discutere.
Dal 2016, anno di interruzione del dialogo, la disputa tra i due paesi ha assunto le forme di una escalation militare che ha rischiato più volte di sfociare in uno scontro diretto. Al largo di Rodi, della piccola Kastellorizo e di Cipro, le navi da ricognizione turche alla ricerca di giacimenti di gas, scortate dai vascelli militari di Ankara, si sono più volte fronteggiate con la marina militare ellenica.
Lo spregiudicato attivismo turco nell’Egeo ha però suscitato la mobilitazione di un composito fronte a difesa della Grecia (e dei propri interessi nell’area e non solo), formato da Francia, Cipro, Egitto ed Emirati Arabi Uniti già sul piede di guerra con Erdoğan dopo l’intervento di Ankara nel Nord della Siria, in Nagorno-Karabakh e soprattutto in Libia. A capeggiare il fronte anti turco è non a caso Parigi, tra gli sponsor del generale Haftar in Cirenaica, mentre Ankara arma e sostiene il cosiddetto Governo di accordo nazionale di Tripoli. Di fronte alle continue provocazioni di Erdoğan, Macron ha spedito navi e aerei a dare manforte ad Atene nel confronto con le imbarcazioni militari turche, mentre i toni tra Parigi e Ankara si alzavano e il sultano consigliava una visita psichiatrica al presidente francese. Anche la fregata italiana “Martinengo” è stata per un certo periodo inviata al largo di Cipro per sostenere la nave esplorativa italiana Saipem 12000, bloccata dalla marina turca.
Dalla fine di dicembre, però, lo scenario è in parte mutato. Dopo tre anni di minacce il Congresso di Washington ha infatti varato sanzioni contro l’ente turco che gestisce l’import/export di armi e sistemi militari, creando non pochi problemi al paese che dipende fortemente dagli Stati Uniti; l’acquisto da parte di Ankara del sistema antimissile russo S-400 aveva già convinto gli USA a bloccare la consegna alla Turchia di sei caccia F35.
Come se non bastasse, anche Bruxelles, sempre a dicembre, ha sottoposto a sanzioni – per quanto simboliche – due manager della Turkish Petroleum Corporation e ha cominciato a discutere nuove misure contro il paese. Ora l’avvento alla Casa Bianca di Biden, più ostile ad Ankara rispetto a Trump, lascia presagire un ulteriore inasprimento delle relazioni con Washington. Il “sultano” ha quindi scelto di tentare di rompere l’accerchiamento, decidendo di abbassare i toni nei confronti della Francia e dei 27. Nei giorni scorsi ha quindi resuscitato la richiesta di adesione all’Unione Europea (da tempo abbandonata) e inviato il suo Ministro degli Esteri a farsi un tour in Europa.
Ma il fuoco continua a covare sotto la cenere. Il 26 gennaio Atene ha siglato l’acquisto dalla Francia di ben 18 caccia Dassault Rafale (12 usati e 6 nuovi) per una spesa di circa 2,5 miliardi di euro, dopo una trattativa lampo durata appena 4 mesi; i primi velivoli dovrebbero entrare in possesso dell’aviazione ellenica già a luglio. Inoltre, il premier Mitsotakis, che ha recentemente fatto appello «al comune interesse europeo a difendere il Mare Nostrum”, dopo aver ottenuto dal parlamento l’assenso all’aumento delle spese militari del 57% rispetto al 2020, ha varato piani d’acquisto di elicotteri, siluri e carri armati. Il leader di Nea Dimokratia caldeggia poi un accordo con la statunitense Lockheed per un potenziamento degli F16 della sua flotta, ai quali potrebbero sommarsi alcuni degli F35 negati alla Turchia. Atene prevede anche l’estensione del servizio militare obbligatorio da 9 a 12 mesi. L’impegno finanziario complessivo per la Grecia potrebbe arrivare, nei prossimi anni, alla cifra di 12 miliardi di euro che include la trattativa per l’acquisto di alcune fregate, allo scopo di rafforzare il proprio schieramento navale. In evidente competizione con Washington, Parigi si è già offerta di fornite ad Atene i vascelli da guerra, come ha ricordato la ministra della Difesa francese, Florence Parly, nella conferenza stampa congiunta con l’omologo greco Nikos Panagiotopoulos seguita alla firma dell’accordo sui Rafale.
Se Francia e Stati Uniti si contendono il riarmo di Atene, anche altri paesi sono interessati ad un rafforzamento militare della Grecia. Lo scorso 5 gennaio, ad esempio, Israele ha firmato un accordo da 1,5 miliardi di euro che include la realizzazione di un centro di addestramento per i piloti dell’aeronautica militare ellenica. Gli Emirati Arabi, invece, il 18 novembre 2020 hanno sottoscritto un accordo di cooperazione militare con Atene che prevede una clausola di mutua assistenza e difesa, oltre allo scambio di consiglieri militari e di informazioni di intelligence. Tra i due paesi è in via di definizione un ulteriore accordo per l’addestramento di tecnici emiratini da parte di istruttori dell’aviazione greca.
Anche l’Egitto, schierato in Libia col generale Haftar e contrapposto alla Turchia sostenitrice dei Fratelli Musulmani, cacciati nel 2013 dal golpe del generale Al Sisi, ha rafforzato la propria cooperazione militare con Atene. Nei giorni scorsi le marine militari dei due paesi hanno realizzato delle esercitazioni congiunte nella Zona Economica Esclusiva del paese nordafricano.
Ovviamente, la Turchia non sta a guardare e mira a mantenere, anzi a rafforzare, la sua già netta superiorità militare rispetto ad Atene, forte del secondo esercito della Nato per importanza. Alla vigilia della ripresa dei colloqui con la Grecia, Ankara ha inaugurato ad Istanbul una nuova fregata che porta il nome della metropoli sul Bosforo. Il vascello è il primo di una serie di imbarcazioni di produzione turca la cui realizzazione è inquadrata all’interno del programma Milgem, un piano di rafforzamento delle forze armate turche che include anche la produzione di una portaerei, la Anadolu. Nel corso del varo della nuova fregata Erdoğan è stato inequivocabile rispetto alle proprie intenzioni: «Sviluppare la forza militare, economica e diplomatica è un obbligo, non una scelta» ha detto. Per completare il proprio schieramento navale Ankara prevede l’acquisto, nei prossimi anni, anche di sei sottomarini.
Erdoğan vuole ottenere quanto prima sia l’autosufficienza energetica sia quella militare, due obiettivi che appaiono, nella strategia turca, indissolubilmente legati. In questo momento il presidente ha deciso di negoziare con Atene e di smorzare la contesa con l’UE (che rappresenta il principale mercato di destinazione delle proprie esportazioni), ma soltanto per evitare di rimanere schiacciato dalla tenaglia costituita dai suoi competitori internazionali. Nena News