Intervista di Nena News all’attivista femminista palestinese Abir Kopty, tra le promotrici della manifestazione popolare di Bab Al Shams, scettica sul processo di pace.
di Giovanni Vigna
Mantova, 24 febbraio 2014, Nena News – “Ogni lotta contro l’oppressione è anche la mia lotta”. Abir Kopty, attivista palestinese, nata e cresciuta a Nazareth, esperta nel settore della comunicazione e della politica, dottorando all’Istituto per gli Studi su Media e Comunicazione presso la Freie Universität di Berlino, è particolarmente scettica sull’esito dei negoziati di pace tra israeliani e palestinesi, ripresi lo scorso anno.
Può descrivere la sua attività come attivista nell’ambito sociale, del femminismo e della politica?
“Come attivista femminista e impegnata in politica, ritengo che la mia sia una lotta per la giustizia, per la mia gente, per i palestinesi e per tutti gli oppressi del mondo. Ogni lotta contro l’oppressione è anche la mia lotta”.
Lei è un’esperta in materia di comunicazione. Cosa pensa del potere che il governo israeliano esercita sugli organi di informazione israeliani? I media palestinesi riescono ad avere spazio o sono limitati dal governo israeliano? Più in generale, che ruolo gioca la propaganda israeliana?
“La propaganda israeliana è una macchina forte perché ha a disposizione budget elevati. La propaganda è un’arma dello Stato, di conseguenza è particolarmente potente e trae la sua forza dal mantenimento del colonialismo e del potere statale. Al contrario, gli sforzi dei palestinesi nella comunicazione sono collegati alla lotta per la giustizia. Il loro impegno si basa sulla fede nella loro causa e non in una macchina strategica che lavora per supportare lo Stato. Israele spende enormi somme di denaro per la “propaganda-Hasbara” (“Hasbara” è un termine usato dal governo Israeliano che significa “spiegazione”, si riferisce al complesso di iniziative inerenti le “pubbliche relazioni” promosse per comunicare un’immagine positiva dello Stato di Israele, ndr), aldilà dell’errata credenza che il problema sia l’Hasbara e non la politica di colonialismo e di oppressione. La propaganda ha successo perché ha potere, controlla molti media ed è efficace nel lungo periodo. Tuttavia credo che stia fallendo perché non riesce a ritrarre in modo positivo una realtà oggettivamente negativa. I palestinesi fanno maggiormente ricorso ai social media e alla comunicazione alternativa, riuscendo così a incrinare i media mainstream, favorevoli a Israele”.
Qual è la condizione delle donne in Palestina e, in generale, nel mondo arabo? Quali sono le difficoltà che le donne incontrano nella quotidianità?
“In Palestina le donne si trovano ad affrontare l’oppressione come in ogni altro posto nel mondo. Le donne sono diverse ovunque, le forme dell’oppressione possono variare da un posto all’altro ma esistono dappertutto. Nella nostra società dobbiamo affrontare il patriarcato ma possiamo contare su un forte attivismo delle donne che si oppongono alle discriminazioni di genere. Non è facile in una società conservatrice, ma andiamo avanti. Come donna, la mia lotta non è solo quella di porre fine al colonialismo israeliano ma anche quella di realizzare una società egualitaria e progressista che rispetti i diritti delle donne e di ogni altro gruppo sociale oppresso. In generale, nelle società repressive, le donne pagano un prezzo più alto perché incontrano diversi livelli di oppressione e questo vale anche nel mondo arabo dove gli uomini non sono liberi. Per questo le donne sono più oppresse, in quanto sono indebolite dal sistema dell’oppressione e del patriarcato. Ciò si riflette nella vita di tutti i giorni, nel sistema dell’educazione, nel mondo del lavoro, nelle libertà personali”.
Che cosa pensa dei negoziati di pace ripresi lo scorso anno? Potrebbero avere un esito positivo per i palestinesi?
“No, il “processo di pace” dura da vent’anni ormai. E cosa abbiamo ottenuto? In questi vent’anni non abbiamo ottenuto nulla, mentre Israele ha continuato a confiscare le terre, ad appropriarsi delle risorse naturali e ad esercitare il controllo su ogni singolo aspetto delle nostre vite. Israele usa i negoziati per dissimulare la continua opera di colonizzazione. Non ha mai smesso di occupare e di impossessarsi della terra e ha distrutto la cosiddetta ‘soluzione dei due Stati’. Non abbiamo motivo per credere che Israele sia sincero sulla propria partecipazione a questi negoziati di pace. Israele dovrebbe essere sincero, innanzitutto, sulla sua volontà di porre fine alla colonizzazione e di rispettare i nostri diritti ma continua a essere in difetto rispetto al riconoscimento dei nostri pieni diritti. Ogni notizia che arriva dai negoziati dimostra che, se sarà raggiunto un accordo, nulla di positivo accadrà per i palestinesi e, anzi, l’esito delle trattative consentirà a Israele di continuare a negare i nostri diritti’.
Che cosa dovrebbero fare le istituzioni italiane ed europee per sostenere la lotta del popolo palestinese?
“L’unico modo per dimostrare un sincero sostegno alla giustizia e alla nostra causa è intraprendere serie e concrete azioni per rendere Israele responsabile e appoggiare il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni contro Israele. Il che significa che tali istituzioni devono smettere di premiare Israele per i suoi crimini e di concedergli privilegi attraverso il commercio e la cooperazione economica. Le istituzioni europee hanno fallito nel tentativo di mettere fine all’occupazione israeliana, devono ammettere che la loro strategia non è efficace e devono cambiare musica. Invece di concedere privilegi, è tempo di comminare sanzioni. Altrimenti gli stati europei continueranno a essere complici della nostra oppressione”.
Sul suo blog ha riportato la frase “Non sarai mai libero finché non rispetterai la libertà degli altri”. È possibile applicare questo principio alla drammatica realtà del conflitto israelo-palestinese e al regime di occupazione militare imposto da Israele alla popolazione araba locale?
“Sì, tale principio può riferirsi a chiunque. Una volta Karl Marx ha scritto: ‘Una Nazione non sarà libera finché opprimerà un’altra Nazione’. Questo concetto deve essere applicato agli israeliani. Un uomo non sarà libero finché opprimerà una donna. Credo che non sarò libera finché gli altri non saranno liberi. È mio dovere essere a fianco di ogni lotta per la giustizia, ovunque”.
Le manifestazioni di Bab Al Shams e Ein Hijleh sono due esempi di ciò che può fare la resistenza popolare palestinese. Visto che lei ha partecipato ad alcune azioni popolari in qualità di organizzatrice, può dirmi qual è la situazione attuale di questi movimenti e quale futuro possono avere?
“Ho partecipato solo alla manifestazione di Bab Al Shams (l’occupazione di una collina di Gerusalemme da parte di attivisti palestinesi e internazionali che, nel 2013, diedero vita a un avamposto per riappropriarsi della terra confiscata dagli israeliani, ndr) ma non mi sono occupata di Ein Hijleh perché, attualmente, non sono nel mio Paese. Tuttavia il tentativo di far rinascere il villaggio di Ein Hijleh è stato un buon esempio del fatto che la resistenza popolare non si fermerà, nonostante l’aggressione israeliana. La resistenza popolare non è stata in grado di mobilitare, per molte ragioni, una partecipazione di massa, e per questo dobbiamo esaminare e criticare la nostra esperienza. Tuttavia la resistenza è ancora viva e la gente sta cercando di fare del suo meglio per andare avanti. D’altra parte, non credo che queste azioni cambieranno qualcosa se parteciperanno solo poche centinaia di partecipanti”. Nena News